La Gazzetta — o forse meglio la Ca**ata dello Sport, come ama chiamarla un mio conoscente? — poche settimane fa aveva fatto del tennista sudtirolese Jannik Sinner un vero e proprio «Caso Nazionale», per la sua decisione di non partecipare alla fase iniziale della Coppa Davis, che, assieme alle Olimpiadi, è uno dei pochissimi eventi del tennis che si giocano «in nazionale». Venne criticato aspramente anche da molti veterani del tennis italiano, come Nicola Pietrangeli o Adriano Panatta.
Ora che ha raggiunto la squadra nella fase finale e ha avuto un ruolo decisivo nella vittoria del torneo, gli stessi che lo avevano schiaffeggiato ora tornano sui loro passi — non certo scusandosi, ma ricalibrando (un po’). Come Giancarlo Dotto sulla Gazzetta del 21 novembre:
La seduzione di Jannik è diventata giorno dopo giorno micidiale nel suo essere nostro, nel suo scoprirsi definitivamente «italiano», senza esserlo davvero completamente, nostro e italiano.
– Giancarlo Dotto, Gazzetta dello Sport
Quando ha sottolineato di quanto era stato bello avere conquistato «i tifosi italiani», quando dire «italiani» per un italiano scontato sarebbe un pleonasmo. Quando ha fatto sua una bandiera, non per dovere anagrafico ma per convinzione, senza l’essere completamente un apostolo delle virtù, dei vizi e della storia di quella bandiera. Insomma, noi abbiamo imparato ad amare Jannik anche perché non ci appartiene sino in fondo. Perché non ci somiglia. Per il suo essere così diverso e così distante dalla nostra anima latina, quando (non) esulta, quando (forse) si deprime, quando (appena) sorride. Quando parla una lingua e forse pensa in un’altra.
Se siamo diventati in una settimana milioni di euforici Carota boys, possiamo rovesciare il concetto e dire che lui, nella stessa settimana, è diventato un non meno euforico Maccarone boy. Uno dei nostri. Una bella storia. Tra un passante e un rovescio incrociato, tra un boato e un coro, Jannik ha scoperto la bellezza torrida di essere nostro e di ritrovarsi italiano. Sentirsi italiani per adozione avvenuta, conclamata e plebiscitaria. Cosa di più bello? Cosa di più illuminante per un Paese che ancora dibatte il dubbio, nella sua pancia più triviale, se abbia diritto di sentirsi e dirsi italiano chi lo ha dimostrato con l’appartenenza, la dedizione, l’amore svelato, e non per un mero fatto di sangue o di etnia.
– Giancarlo Dotto, Gazzetta dello Sport
E insomma, tutto è bene quel che finisce bene: il colonizzato — secondo Dotto «più apolide che altro» — è stato adottato per acclamazione, avendo avuto la decenza di corrispondere alle aspettative e di accrescere il prestigio del padrone.
Lui capisce in fretta e le belle parole alla fine di ogni match non sono mai state confetti di circostanza. Sono state le parole di un ragazzo finalmente pronto a «sentirsi» oltre che dirsi italiano. […] Da qui in poi, statene certi, la finalmente e definitivamente «nostra» Volpe Rossa giocherà per la «sua» Nazionale anche con un braccio ingessato.
– Giancarlo Dotto, Gazzetta dello Sport
Per chi scrive vaccate del genere si potrebbe anche provare compassione e basta, se non fosse che sono rappresentative, le vaccate, del «pensiero nazional-nazionalista» e che le stesse discussioni si ripropongono ogni singola volta che atleti sudtirolesi di lingua tedesca hanno (o non hanno) successo. Anzi, peggio ancora: l’editoriale della Gazzetta è sì stato oggetto di critiche diffuse da parte di molte altre testate giornalistiche, ma quasi sempre relativamente al punto che Dotto si è permesso di dubitare dell’italianità di Sinner.
Insomma: finché non interverrà la totale assimilazione, le uniche opzioni concesse a chi appartiene a una minoranza nazionale sono quelle di dover professare la propria italianità (vera o finta) a ogni piè sospinto o di vedersi rinfacciare l’insufficiente identificazione con la nazione. E nella maggior parte dei casi tali opzioni non sono nemmeno alternative tra di loro, ma, come nel caso di Sinner, si sovrappongono facendo a gara tra di loro. Lo stato (mono)nazionale è questo e i riflessi che ne conseguono non spariranno mai.
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