Poco tempo fa in un parere ufficiale indirizzato al Comitato pari opportunità della Corte di Cassazione sulla parità di genere negli atti giudiziari, l’Accademia della Crusca aveva nettamente rifiutato praticamente tutte le espressioni linguistiche volte a includere e rendere visibile il genere femminile. Secondo i pasdaran della lingua, nel linguaggio istituzionale sarebbero da evitare non solo accorgimenti «spinti» come lo schwa (ə) o l’asterisco, ma perfino le forme sdoppiate (come «cittadine e cittadini»), mentre va benone il vetusto maschile generico o «non marcato».
Le raccomandazioni espresse in precedenza fanno comunque capire che questo atteggiamento reazionario non è limitato alla sfera istituzionale in senso stretto, ma si estende allo standard in tutte le sue espressioni:
[N]on dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire.
– Accademia della Crusca (fonte)
Neanche a farlo apposta, proprio in questi giorni la Diocesi sudtirolese ha pubblicato le sue linee guida per l’uso del linguaggio inclusivo, consigliandone espressamente l’applicazione — in tedesco e italiano — nel contesto (istituzionale) ecclesiastico.
Constatiamo allora come ormai la Crusca si sia fatta sorpassare anche da un’istituzione estremamente legata alla tradizione e non certo incline a seguire le mode, come appunto la Chiesa cattolica.
Più chiaro di così… si muore.
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