Friedrich Overbeck, “Italia und Germania” (Sulamith und Maria)
Dialogo interiore di Valentino Liberto. [Dedicato a niwo]
0. Dopo la stesura di Südtirol ist auch Italien, alcuni lettori ti hanno suggerito di chiarire le «tesi di fondo» attorno alle quali si cristallizzano le riflessioni riguardanti il legame tra Stato-Nazione e appartenenza a esso, cui accenni nel testo. Da quali presupposti nascono le tue argomentazioni?
Introdurrei la mia risposta partendo da una breve citazione: «Nazionalismo e centralismo tedeschi furono i presupposti per il nazionalsocialismo e la guerra; gli stati nazionali mettono a rischio il futuro dell’Europa se nazionalisti e militaristi. Una società organizzata politicamente in stato federale, con più centri di potere diffusi sul territorio, impedisce l’assolutismo totalitario e il militarismo. Ogni potere centralizzato, come quello che lo stato prussiano ha cercato di instaurare in Germania e in Europa, dev’essere soffocato sul nascere. La Germania potrà unicamente essere una federazione. Solo un sano ordinamento federalista può riempire di nuova vita l’Europa indebolita». E’ quanto scrivevano sul finire del Secondo conflitto mondiale i giovani della “Weiße Rose” (Rosa Bianca), gruppo studentesco formatosi all’Università di Monaco di Baviera che si oppose alla furia nazista. Oltre quarant’anni dopo, il crollo del Muro di Berlino nell’autunno 1989 offrì alla Germania e all’Europa l’opportunità di liberarsi dell’ultimo ostacolo sulla strada verso la piena affermazione di quel disegno. Disegno nel quale il Sudtirolo quale territorio “di sutura” tra Mitteleuropa e Mediterraneo, tra il mondo tedesco e l’Italia, non gioca oggi a mio parere alcun ruolo protagonista – nonostante l’appartenenza amministrativa a un paese cofondatore della CEE e la successiva adesione della «madrepatria austriaca» all’Unione Europea. Il concretizzarsi delle aspirazioni dei giovani bavaresi non pare oggetto d’interesse nell’opinione pubblica sudtirolese.
1. Perché i sudtirolesi non beneficiano del contesto europeo? Sei tra i cofondatori della Brennerbasisdemokratie (), piattaforma web promotrice di un manifesto bilingue per l’autodeterminazione del Sudtirolo: credi che le ragioni siano insite nel sistema Autonomia?
Colgo l’occasione offertami dalla tua domanda per fare un résumé del dibattito sull’indipendenza svoltosi nel think tank di Brennerbasisdemokratie e illustrarne in dettaglio i principali esiti a 6 anni di distanza dalla sua nascita. ha l’intento di dialogare sul futuro geopolitico del Sudtirolo. Onde garantire la tutela delle diversità linguistico-culturali, l’Alto Adige/Südtirol ha infatti potestà legislativa autonoma sancita dallo “Statuto d’Autonomia”, approvato con legge costituzionale dello Stato italiano nel 1972 e frutto di più accordi internazionali tra Italia e Austria nonché d’un “Pacchetto” di provvedimenti esecutivi richiesto (e ampliato di volta in volta) dalla SVP, il partito di raccolta delle minoranze tedesca e ladina. L’Autonomia ha consentito l’acquisizione di competenze nell’autogoverno provinciale, lo sviluppo di un’economia fiorente e una blanda benché pacifica convivenza tra i gruppi linguistici; i vincoli a quest’ultima derivano dalla strutturazione “etnica” della società, dovuta all’applicazione rigida dello Statuto (censimento, proporzionale nell’impiego come negli incarichi pubblici, istruzione in madrelingua, bilinguismo della toponomastica) e alla conseguente suddivisione per gruppo linguistico del vivere quotidiano: media, gruppi d’interesse, organizzazioni politiche e associazionismo culturale. Il progredire verso una più estesa e fiorente convivenza, riconducibile al dinamismo interetnico della società stessa, è ostacolata da vari fattori.
2. Quali problematiche sono direttamente riconducibili all’impianto “etnico” dell’Autonomia?
1. L’appartenenza formale allo Stato nazionale pur nel quadro di un’autonomia regionale, porta alla percezione di sé come “minoranza”: su base nazionale per i tedeschi, provinciale per gli italiani, nazionale e provinciale per i ladini. Contrapposte minoranze si esprimono all’interno del discorso pubblico (politico-mediatico) tramite un conflitto etnico «ben temperato» [Langer], sopravvissuto sul piano della mera «rappresentazione del contrasto» [Di Luca] e manifestatosi in richiami mitico/simbolici a opposte identità create ad hoc, nella strenua difesa della madrelingua, nell’attaccamento identitario al passato e (soprattutto in concomitanza con appuntamenti elettorali) nell’estremismo patriottico. 2. L’indebolimento del gruppo linguistico italiano a margine di una «maledizione del pendolo» [Langer]. E’ il cosiddetto “disagio degli italiani”: rei del sostegno pluriennale a forze politiche anti-autonomiste, si sottraggono – con il tacito assenso della SVP – alla partecipazione attiva e consapevole nel governo dell’Autonomia, evasivi nella rielaborazione critica della propria memoria storica e «spaesati» [Giudiceandrea] perché privati del diritto di radicamento territoriale, non riconosciuto dai sudtirolesi della “Heimat”. 3. Il plurilinguismo è tuttora deficitario (conseguenza dei punti precedenti) e vittima di una «retorica della convivenza» [Di Luca], sebbene rappresenti premessa imprescindibile nell’ottica della cooperazione europea.
3. Allora come credi possano superarsi i paradigmi sinora perpetuati dall’Autonomia cosiffatta? Intravedi delle prospettive alternative? Quali altri obiettivi da raggiungere occorrerà perseguire?
Qui entra in gioco : ai limiti strutturali delle istituzioni odierne che impediscono di ristrutturare le logore coscienze collettive, i membri della Plattform contrappongono differenti soluzioni. Esse si orientano grossomodo entro due direzioni distinte. Il primo modello, che definirei una soluzione “consensuale” o “indipendentista”, si ispira all’autodeterminazione catalana – come banco di prova – e alla Willensnation svizzera – esemplare in ambiti quali democrazia e plurilinguismo. Attraverso il ricorso a energie interne, punta all’ottenimento di una piena sovranità indipendente sia da Roma che da Vienna, favorendo un processo di emancipazione dagli Stati nazionali, di nation building post-etnica all’interno di una marcata elasticità e permeabilità dei confini. De facto questo modello concepisce un’entità statuale dotata di potere estero, potenzialmente neutrale. Necessita di un ampio consenso trasversale nell’opinione pubblica e nei partiti politici, aldilà di ogni distinzione linguistica, dopodiché una comune “cabina di regia” dovrà coordinare la campagna divulgativa, i rapporti diplomatici, il passaggio alla nuova forma di Stato. Secondo , solo così sarà possibile: 1. rimuovere i vincoli imposti al sistema dall’Autonomia e costruire una comunanza di valori per la nuova cittadinanza indivisa; 2. consentire contaminazioni culturali, liberandole da subdole logiche assimilatrici; di qui 3. superare definitivamente la dicotomia minoranza-maggioranza, cioè istanze etero-dirette (dall’Italia) e meccanismi auto difensivi (originatisi da traumi storici dei sudtirolesi); 4. migliorare il bi/trilinguismo ufficiale e la tutela dei consumatori.
4. Lo Stato sovrano concepito come soluzione definitiva pare una mossa alquanto azzardata. Per un vero europeista, il fine è rafforzare l’UE. Non pensi ci sia “qualcos’altro” di più risolutivo?
La seconda proposta, soluzione “istituzionale”/federalista, mantiene pressoché intatti i rapporti bilaterali tra Sudtirolo e “resto del mondo” elevandoli in termini di qualità e quantità. Partendo dal presupposto (non scontato né di facile confutazione) che la nostra Autonomia rappresenti «uno dei migliori esempi di accomodamento del conflitto etnico» [Palermo], si sottolinea il carattere «ideale eterno» [Di Luca] del contrasto così com’è rappresentato, perché fisiologico data la natura etnocentrica dell’Autonomia stessa; contrasti perpetui ritenuti mai del tutto sanabili e che sarebbe azzardato (e forse inopportuno) presumere di sanare mediante soluzioni ritenute definitive. Data l’inesistenza di modelli perfetti, la transitorietà consolidata del compromesso autonomista diventa un valore. Piccoli passi mossi con cautela, accontentandosi di regolare inevitabili conflitti. L’intento è migliorare l’esistente: rivedere i paletti posti dallo Statuto, aprire il dettato statutario ad alcune interpretazioni giuridiche meno rigide, aggiornare il System Südtirol alle modifiche intercorse nella società; revisione che ha bisogno d’una contestuale opera di decostruzione (non solo storiografica) dei miti e depotenziamento dei simboli, nel solco di una memoria più condivisa. Scuola e altre agenzie formative divengono fondamentali, per una migliore rielaborazione del Novecento.
5. Andando più sul concreto: la minoranza ladina già distribuita su tre province e due regioni italiane avrà diritto ad autodeterminarsi? E nuovi confini non divideranno l’antico Tirolo? Trentini e nordtirolesi non si sentiranno esclusi da una rinnovata progettualità sudtirolese?
Le soluzioni sin qui esposte contribuiscono a riassumere le posizioni espresse sui blogs di . I due esempi non sono in netta contrapposizione tra loro, anzi. Entrambi si discostano dall’idea unilaterale di un’autodecisione separatista: caldeggiata in particolare dagli ambienti della destra pantirolese, essa difficilmente scalfirebbe i rapporti di forza attivati dall’Autonomia (sin qui descritti) e incarna il paradosso di disgiungere le restanti aree costitutive del Tirolo storico (un errore forse commesso pure in ). Al contrario, si tratta di puntare su progetti che in primis coinvolgano tutti i gruppi linguistici, in secondo luogo conducano a un riconoscimento sul panorama europeo e globale. Non è da escludere un’evoluzione soft in chiave euro-federale del “modello sudtirolese”, affiancato al vicino Trentino e Land Tirol con il formarsi di un ente politico intermedio (Euregio) che possa sostituirsi gradualmente alla Regione Trentino-Alto Adige nella dialettica istituzionale europea e unire i ladini delle Dolomiti sotto un unico tetto amministrativo. Un’entità garante dotata di propria sovranità – ancorata alle Costituzioni italiana e austriaca, come propone il governatore trentino Lorenzo Dellai – può meglio affrontare gli interessi comuni all’area e scardinare dall’esterno l’autoreferenzialità del Sudtirolo odierno, così opprimente al suo interno.
6. In gioco c’è la natura dei confini, tutt’altro che svaniti. Come procedere nello smantellamento di barriere “nazionali”? Il loro superamento all’interno dell’Unione Europea è davvero una visione auspicabile? Come governare allora un colosso europeo dotato di potere centrale?
E’ una questione fondamentale, già affrontata a chiare lettere da Alexander Langer. Antesignano dell’Europa ideale, transfrontaliera e contraria all’esercizio etnico dell’autodecisione, a proposito del «fantasma» dell’Euregio tirolese plurilingue parlò di «integrazione nell’integrazione [europea]» utilizzando «margini di azione sub-statuale, […] un progetto che cercherebbe di evitare il conflitto aperto con gli Stati (quindi niente ridefinizioni di frontiere) […]. Il disegno di un’Europa unita avrà bisogno di zone di sutura, in cui i vecchi confini statali si diluiscano più generosamente che altrove ed in cui l’artificiosità delle frontiere nette tra lingue e popoli possa invece dissolversi gradualmente in territori comuni, in aree di più intenso scambio e di frequentazioni trans-confinaria […] in un quadro di coinvolgimento degli Stati co-interessati e di promozione del regionalismo [europeo]». «Il Tirolo storico da questo punto di vista può essere un utile riferimento, non solo nostalgico». Nell’ottica di un’emancipazione dagli Stati nazionali, tratta invece lo “sfocamento” dei confini ovvero il boarder blurring: nuovi confini amministrativi «sovrappongano confini diversi che non combaciano mai, più attenti alle dimensioni sociali anziché ispirati a logiche etniche» [Constantini]. Impossibile far scomparire i confini, abolirli (o persino spostarli) con un colpo di bacchetta magica.
7. I costituzionalisti mettono in guardia dal definire obsolescenti gli Stati democratici: mentre le Costituzioni che più efficacemente tutelano i diritti fondamentali sono statali e presidiate dalle giurisdizioni nazionali, nel mondo globale il diritto è fatto dalle multinazionali. Cosa ne pensi?
L’economista americano Joseph Stiglitz, per quanto concerne la regolazione dei mercati, sottolinea l’importanza degli Stati (leggi “La globalizzazione che funziona”). Anche il filosofo francese Régis Debray (nel pamphlet “Éloge des frontières”) sostiene che vi sia un ritorno alle frontiere: l’utopia universalista, all’insegna della globalizzazione tecno-economica che «produce una balcanizzazione politico-culturale» (demondializzazione), è responsabile dell’illusione di un mondo senza frontiere, espressione romantica del neoliberalismo. Cruciale in Europa (come dimostra la crisi del Belgio), «il confine è necessario per riconoscere l’altro, senza il quale non si riconosce più nemmeno se stessi». «Senza fuori non c’è dentro. La frontiera è sempre ambivalente, può essere un motivo di scontro e guerra o un luogo di pace e scambio. Dove non ci sono le frontiere, s’innalzano muri, contrari alla frontiera. Il muro nasconde l’altro, la frontiera lo riconosce, accettandone l’identità, primo passo per un possibile negoziato. L’antidoto al muro è la frontiera». Onde scongiurare particolarismi e insurrezioni identitarie, sarà necessaria la diplomazia, «il negoziato, il riconoscimento reciproco e la ricerca di equilibrio». «Occorre un’etica della frontiera, dato che non c’è niente di peggio di un confine nascosto o che diventa un ostacolo. La frontiera deve essere evidente, condivisa e regolatrice. La condizione necessaria del superamento della frontiera è la frontiera stessa».
8. La frontiera si presenta come un diritto dei popoli, che garantisce la loro integrità territoriale; il diritto internazionale è però restio a consentire l’esercizio dell’autodeterminazione dei popoli. Torniamo alla soluzione cd. “indipendentista”: come può divenire socialmente desiderabile?
Secondo dovrà essere la più inclusiva possibile e abbattere ogni confine “interno”. In tal caso, si tratta di sciogliere una serie di nodi irrisolti, quali: 1. l’assenza di una tematizzazione ragionevole da parte della società civile, non ancora prosciugata dai pregiudizi che ne alimentano i dubbi e offuscano le opinioni, e la poca consapevolezza della stessa, di per se immatura, inattiva e plasmata dalle strutture istituzionali autonomiste; 2. la scarsissima credibilità della promozione politica di ogni innovazione, anche ipotetica – e l’applicabilità concreta di modelli alternativi per mano della classe dirigente; 3. la desiderabilità effettiva di modelli che implicano un impegno idealistico e teorico-intellettuale non indifferente; 4. il perdurare dello spaesamento “altoatesino” e il rafforzarsi del separatismo di stampo regionalista sono fenomeni che appaiono incontrollabili: non è escluso che i traumi da essi provocati possano perpetuarsi per un tempo ancora lungo; 5. altrettanto incontrollabile risulta l’ipotesi che nuove entità-stato generino rinnovati nazionalismi.
9. Riprodurre anche involontariamente meccanismi di inclusione (ed esclusione) “nazionali” non rende inauspicabile la creazione di nuovi Stati? La crisi dell’Europa rischia di incancrenire col rinfiammarsi di spiriti micro-territoriali? Insomma, può divampare un fuoco neo-nazionalista?
Forse. Brennerbasisdemokratie «gira e rigira i vecchi ingredienti della nazione, scomponendoli e ricomponendoli con ottime intenzioni, ma il problema è che gli ingredienti sono sempre quelli» [Dello Sbarba]. Un elemento che costituisce una pietra d’inciampo non trascurabile all’interno della visione propagata da : la “decostruzione” della logica nazionale (e del nazionalismo) non può accompagnarsi ad un nuovo progetto di fondazione “nazionale”. A questa critica di carattere logico, c’è chi aggiunge il proprio «pessimismo antropologico» [Di Luca] per cui è impensabile proporre l’indipendenza sperando che il semplice mutamento della cornice istituzionale porti ad un mutamento della mentalità sudtirolese. L’evoluzione di una classe dirigente non dovrebbe basarsi su scorciatoie istituzionali. La proposta indipendentista implica inoltre lo spostamento di tutte le competenze dello Stato nazionale, compreso il monopolio della violenza legittima che – partendo dalla definizione di Stato coniata da Max Weber – sancisce l’inizio e la fine di una sovranità nazionale. Un calendario operativo e l’allestimento di nuove norme dovrebbero accompagnare un contestuale smantellamento della dialettica “etnica”. Un bel grattacapo: cambiando prospettiva, si tratta di capire quali ingredienti rimescolati da siano indigesti.
10. L’Europa è nata per contrastare il nazionalismo. Al contempo, con la dissoluzione degli Stati esistenti, temi l’instaurarsi di quei rinnovati meccanismi “nazione-centrici” da te contestati. Perorare la causa di una nuova forma di “nazione dovuta”, giusta di per se, è tanto sbagliato?
Perciò il cammino (spesso più importante della meta preposta) si fa impervio. E in questo senso, appare una lotta contro i mulini a vento. Proviamo ora a inserirci in uno scenario più ampio, a immaginare un salto di qualità nelle argomentazioni: se l’indipendenza è vista come passaggio di transizione obbligato verso un’Europa delle Regioni, nel quadro di un lento dissolversi degli Stati-Nazione come elementi costitutivi della governabilità territoriale, attraverso l’erosione di poteri e sovranità verso il basso (enti locali) e l’alto (Bruxelles), cosa accadrebbe nel caso in cui il tramonto degli Stati nazionali si rallentasse o (peggio) arrestasse del tutto? E’ la situazione nella quale ci troviamo e qui sta il nodo più difficile. Innanzitutto: i fenomeni della globalizzazione non hanno intaccato minimamente il primato dello Stato-Nazione sulla scena politica internazionale. La stasi delle principali organizzazioni sovranazionali lo dimostra. L’Unione Europea è ridotta a mero tavolo intergovernativo; è un dato di fatto. Il Sudtirolo, in tal senso, ha aderito formalmente per più di 90 anni al “progetto Italia”. L’investimento di energie socio-culturali e capitali politici per ottenere e difendere le prerogative dell’autogoverno sudtirolese rispetto allo Stato centrale costituiscono un laboratorio esperienziale il cui patrimonio non va sperperato. Patrimonio visibile, la cui validità è riconosciuta all’estero come “modello”. Di qui il mio appello al motto di Südtirol ist auch Italien.
11. L’adesione amministrativa ha davvero un nesso con la partecipazione all’Unità d’Italia?
Potrei rispondere con un simpatico aneddoto. Uno storico del Risorgimento, Alessandro Volpi – assessore al bilancio della città di Massa (in una giunta di Sinistra) nonché apprezzato docente di Storia moderna e contemporanea all’Università di Pisa, esperto di economia e geopolitica, persona stimata e dotata d’un proverbiale humour toscano – parla a lezione del trattato di Saint Germain, soffermandosi brevemente sulla realtà locale del Sudtirolo, con qualche affermazione curiosa e altre più pertinenti. Sull’annessione racconta quello che sappiamo un po’ tutti (il Patto di Londra, il confine del Brennero per ragioni strategiche etc.): dopo aver ricordato che «in Alto Adige la popolazione era ed è tuttora di madrelingua tedesca» e Battisti «soprattutto in un primo tempo voleva giustamente piazzare il confine più a sud», divagando aggiunge: «Non so se sapete, ma in Parlamento c’è questa forza, la SVP, che vince sempre le elezioni a Bolzano e chiede che l’Alto Adige torni a chiamarsi Sudtirolo, al che viene da chiedersi perché non li lasciamo andare» (agitando le braccia come gesto d’accompagnamento della battuta, con risata collettiva) «perché a Bolzano gli italiani sono qualcosa di estraneo, se parli in italiano ti guardano strano, gli italiani non sono proprio ben visti…». Seduto in seconda fila, con la mano faccio segno «più o meno» (scuotendo la mano). «Io vengo da lì, la realtà è ben un’altra…” (sorridendo e stando al gioco). Resosi conto della figura, convintissimo non ci fossero sudtirolesi, prosegue rincarando un po’ la dose ma spostando l’attenzione altrove: «Beh, a me dissero una volta: ci sono due posti dove è meglio stare attenti a parlare in italiano: Bolzano e la Corsica. Infatti una volta, proprio in Corsica avevo parcheggiato l’auto su un molo e al mio ritorno l’ho ritrovata in mare!» (ennesima risata collettiva). Chiudendo la parentesi comica, il professor Volpi torna sui suoi passi, correggendosi dicendo che «le rivendicazioni sudtirolesi sono comunque legittime» dato il secondo (e beffardo) schiaffo inferto dagli Alleati nel 1946, quando il Sudtirolo fu riaggregato all’Italia perché destinata a entrare nella NATO come avamposto per fermare l’avanzata sovietica nel continente europeo.
12. All’Italia serve ancora il Sudtirolo? Non sarebbe più semplice liberarsi di questo “peso”? E i sudtirolesi conoscono l’italianità meglio di quanto gli italiani possano conoscere la sudtirolesità?
Ciò che ci unisce ulteriormente allo Stato italiano ha un’importanza. Forse non risultano chiare le potenzialità (perché ancora inespresse?) di un’attenzione più significativa e ragionevole verso quel legame; perciò, provo a ripartire dai precedenti maldestri tentativi per spiegare tale monito. Già due anni fa, nel 20° anniversario della riunificazione tedesca, diversi opinionisti italiani si sono resi protagonisti di un acceso confronto sulle celebrazioni per il 150° dall’Unità d’Italia. Se i fratelli d’Italia litigano in dialetto, con la Germania “sorella d’Europa” vicina-lontana il Belpaese ha più in comune di quanto lo differenzi: Berlino divisa e la questione di Roma capitale, il Muro e la Breccia di Porta Pia, l’Est degli “Ossi” e la questione meridionale, la Baviera “locomotiva” e il Nord verde “padano”, il “Viaggio in Italia” di Goethe e gli studi linguistici di Pirandello a Bonn, sino alle pagine più nere della storia. Due sorelle dai lineamenti simili, accomunate dalla litigiosità dei figli, hanno percorso (non sempre con le proprie gambe) un cammino dai destini paralleli. Ma il mito fondante della Germania contemporanea è più vicino nel tempo (oltre che condiviso, nonostante tutto) rispetto all’impolverata (e persino controversa) celebrazione dell’Assemblea costituente o del Risorgimento. E il concetto di Heimat, l’“educazione sentimentale” al territorio e alle tradizioni ad esso legate tipica dei tedeschi, mal si combina con la scarsa sensibilità ambientale degli italiani, che a preservare il paesaggio naturale ci pensano a momenti alterni. Se la prima è stata vittima dell’esaltazione d’una lingua e dall’imposizione d’una cultura sulle altre, la seconda è ancora oggi alla ricerca di un elemento unificante che valorizzi il bagaglio storico-culturale e umano acquisito, perché alle prese con dispute interne, minacciata dalla tentazione di tornare allo status quo ante.
13. Italia e Germania “sorelle d’Europa”, dunque. Come s’è plasmata l’identità italiana?
Nell’Italia di Crispi come nella Germania di Bismarck, fu necessario il ricorso a una retorica che parlasse direttamente alle masse per integrarle in questa nuova realtà nazionale: è il processo di “nazionalizzazione” delle masse, esigenza avvertita in tutti gli Stati occidentali, che grazie a questa pedagogia patriottica si adoperano per allargare il consenso. Lo storico dei fascismi Emilio Gentile è convinto che «ovunque in Europa la maggioranza della popolazione non si sente immediatamente nazionale; il sentimento nazionale della collettività non è un dato naturale né un sentimento spontaneo, viene indotto dall’alto». «L’Italia è una nazione difficile, ma nessuna nazione è facile: a noi [italiani] è certamente mancata quella lunga unità statuale capace di superare lacerazioni anche profonde, favorendo la formazione di una coscienza nazionale più ampia. Lo Stato italiano s’è formato tardi e non ha avuto sufficiente tempo per consolidarsi». Norberto Bobbio rilevò che il termine “nazione” ha pochissimo spazio nella Costituzione italiana: si preferisce “popolo”. Del resto, aggiunge Gentile, «la Costituzione non ha caratterizzazione in senso nazionalista» e si parla di «primato del patriottismo costituzionale sul patriottismo della nazione». La nazione italiana può essere considerata parte di un’invenzione degli intellettuali. «Ma se fosse soltanto un’invenzione – si domanda Gentile – senza radici in una realtà storica, allora perché non ci inventiamo subito una nazione europea, occidentale o planetaria?». Esiste una categorizzazione tra nazioni “politiche” e “culturali”, le prime coincidenti con la dinastia regnante (monarchie, aristocrazie) e le seconde fondate su forme d’unità linguistica e culturale condivise da una minoranza di illuminati: di qui sono nati il nazionalismo romantico, democratico, risorgimentale, imperialista e infine totalitario.
14. A 20 anni dalla caduta del Muro di Berlino, il processo di integrazione europea incorre nella resistenza degli Stati nazionali a rinunciare ai capisaldi della loro sovranità. Quali le cause?
Fatta l’Italia, ad esempio, bisognava fare gli italiani. Secondo Bobbio, lo spirito nazionale si forma attraverso un primato. In Italia ne esistono diversi: il primato dei colti, della gastronomia, dell’Italia popolare. E’ difficile parlare di “nazione italiana” perché per ragioni storiche e di stratificazione sociale ne coesistono molte, per quanto (afferma ancora Gentile) «l’essere nazione non significa essere identici e omogenei come una pietra o una pianta». Si tratta del «cosmopolitismo degli italiani» [Gramsci]. Di qui la necessità di far combaciare lo Stato e le sue istituzioni democratiche con il sentire nazionale e la legittimazione di un potere centrale. La previsione post-1989 sul tramonto degli Stati-Nazione per effetto di un «declino del significato storico dei nazionalismi» [Hobsbawn] e l’affermarsi dell’europeismo s’è rivelata errata. L’erosione delle sovranità nazionali è prigioniera del mito unificatore: l’opera di consolidamento delle identità culturali “nazionali” (ancora in atto all’interno di alcuni paesi membri dell’Unione, come menzionato in precedenza) è stata rapidamente superata dalla spinta verso l’integrazione economica continentale, generando al contempo – nel “discorso pubblico” delle singole nazioni – dinamiche centrifughe che a loro volta rallentano il processo di unificazione europea. Fatta l’Europa comunitaria (almeno sulla carta), appare invece lontana la diffusione di una cittadinanza culturalmente cosmopolita ed europeista.
15. Come detto, si dava per scontato che il nazionalismo fosse in estinzione, col risultato che l’Italia è stato tra gli ultimi paesi in Europa ad aver sviluppato una riflessione sul problema della nazione. Ma la Repubblica era già esistente. Nasce prima lo Stato-Nazionale o l’appartenenza?
Dal raffronto tra i processi di unificazione tedesca e italiana, emergono a mio parere le premesse per formare una “massa critica” nella cooperazione europea. Secondo alcuni osservatori, infatti, il riaccesosi dibattito sull’unità nazionale è uno specchio per le allodole che nasconde la difficoltà tutta italiana nel promuovere dignitosamente il discorso europeista. Non si tratta infatti di aspettare il crearsi spontaneo di un sentimento d’appartenenza collettiva per costituire uno Stato federale (Stati Uniti d’Europa?) ma di gettare le basi costituzionali di una nuova statualità affinché tale senso comune si profili in essa. La nazione deriva dallo Stato, superiore ad essa, ma lo Stato per reggersi necessita a sua volta di un’identificazione nazionale di base, al di sotto della quale possono coesistere una molteplicità di differenti sensibilità regionali (le diverse “Italie” i Land tedeschi) ma esse devono riconoscersi nella sovranità di una “nazione delle nazioni” trasversale e superiore; la nazione è vista come base per il consolidarsi dello Stato ma non come condizione indispensabile per la formazione dello stesso. Direi che è argomento sia a favore che contro . Lo Stato nasce come compromesso, dove micro-nazionalismi locali si ridimensionando accettando l’autorità dello Stato sovrano. Lo Stato, però, è un mezzo e non un fine per l’integrazione europea, sebbene io reputi difficile sviluppare l’UE senza nemmeno un minimo sforzo di nazionalizzazione.
16. L’Europa potrà funzionare senza che prima gli Stati riconoscano le frontiere interne? E le Regioni si conformeranno a un’entità sovranazionale senza prima relativizzare i particolarismi verso sovranità che insistono su territori geograficamente più ampi, cioè verso gli Stati stessi?
Aggiungerei un quesito: applicare uno strumento “positivo” prima che i cittadini siano in grado di comprenderlo e padroneggiarlo (per fare sì che “si abituino”) o dare priorità alla formazione di una società pronta a recepire un’istanza giusta – purché nata dal basso? Concentrarsi sulla definizione dei confini e la strutturazione del sistema attraverso un’aggregazione di territori o meglio un centro aggregatore (state building) oppure sull’armonizzazione delle diversità attorno a radici e valori comuni, regolando i conti con il proprio passato (nation building)? Il procedere parallelo di queste costruzioni e il vantaggio dell’una sull’altra non determinano per forza il successo o l’insuccesso di un esperimento “nazionale”. I percorsi di (ri)unificazione intrapresi da Germania e Italia nonché la questione sudtirolese dimostrano come un’identità territoriale più o meno solida possa formarsi gradualmente anche in seguito ad eventi “traumatici” – il crollo del Muro di Berlino, l’ottocentesco Risorgimento italiano o il trattato di Saint-Germain – dove le differenze culturali e/o linguistiche sono appianate dall’impiego preventivo di un “contenitore”. Un’autodeterminazione in standby, “determinata” da agenti esterni o calata dall’alto “in attesa” del compiersi di un processo interno.
17. Una soluzione cinica associabile alla corrente elitaria dei cd. “federalisti europei”. Essa non rappresenta un’incognita? Come ricreare su grande scala qualcosa che non è riuscito in piccolo?
Il problema sta nel preparare il consenso (Akzeptanz) e amministrarlo in modo tale da rendere accettabile un passaggio semi-rivoluzionario condotto da élites ristrette, che prendano atto del divario tra governanti e governati. I più pessimisti temono la riproposizione a livello più alto delle logiche “rappresentative” degli stati nazionali; per i federalisti europei più accaniti e ottimisti, solo una sovranità superiore potrà fregiarsi un giorno della piena co-responsabilità d’una neonata cittadinanza europea, garantendo strumenti partecipativi di democrazia diretta. C’è chi si augura (in un intreccio tra ottimismo in dosi massicce e utopia) un’operazione tre le principali diplomazie continentali che affidi ad una Costituente il trasferimento massiccio dei poteri legislativi in materia economico-fiscale, giudiziaria ed estera – oltre che della difesa – al Parlamento di Strasburgo (già fonte del 70% della legislazione nazionale), accompagnata da un’adeguata campagna informativa (ed educativa) di opinion building, facendo leva sul ricambio generazionale. Per i giovani euro-cittadini un’istituzione tale diverrà tanto scontata e ovvia, che nell’arco di qualche decennio l’unità politica europea sarà data per acquisita. Ma se l’avanguardia intergovernativa franco-tedesca ha già prodotto da tempo un’Europa “a due velocità”, la lungimiranza tedesca potrebbe consentire la rappresentanza europea comune al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, così come prospettato dalla maggioranza CDU-Liberali; ennesima dimostrazione della preminenza degli Stati-Nazione sugli organismi intergovernativi o sovranazionali, fiacchi esecutori di decisioni altrui.
18. Come reagire alla lentezza dei cambiamenti, alla tendenziale arrendevolezza di fronte al mancato mutare di mentalità preesistenti? Gli Stati-Nazione saranno nuovamente protagonisti?
Nel dibattito si sono affermati idealisti convertitisi al realismo, secondo i quali la decostruzione dei microinteressi locali e il superamento dello Stato-Nazione passa necessariamente attraverso una mediazione dei conflitti interni agli stati nazionali e non per scorciatoie che aggirino gli ostacoli tramite l’esercizio intellettuale del federalismo europeo. L’Europa non può svilupparsi profittando della frammentazione degli stati nazionali (disgregati in microaree) o sul loro fallimento in quanto figli del nazionalismo d’ispirazione ottocentesca, bensì dalla somma di entità “forti” cresciute attorno ad una base comune di valori, ovvero su esperienze “di successo”. Uno stato che gode al suo interno di una maggiore coesione territoriale rispetto ad altri, sarà in grado di garantire un’unità d’intenti, di affrontare e gestire un decentramento dei poteri a livello locale, delegando di pari passo proprie competenze a Strasburgo. Un’evoluzione europea, quindi, non è facilitata dalla generica abolizione degli stati o dall’abbattimento dei confini, ma si muove “da dentro” in due dimensioni e contemporaneamente, con modalità spaziotemporali ben definite. I paesi che sanno conciliare federalismo e solidarietà “nazionale” (nel senso non nazionalista del termine), con minori problemi “in casa” e la coscienza cd. “a posto”, sostengono progetti transfrontalieri maggiormente credibili: è il caso di Germania e Francia nell’area del Reno Superiore (tra Alsazia, Baden e Basilea), non dell’Italia, rea di una deriva “padana” che predilige i contatti oltralpe per svincolarsi dai rapporti nord-sud. Infine, la battaglia per l’indipendenza delle minoranze nazionali è una lotta combattuta all’interno agli stati, nel solco delle nazionalità, dello scontro tra centro e periferia, capitali e zone di confine. Così come l’Autonomia è stata il motore del nation building sudtirolese, l’autodeterminazione resta nel terzo millennio un affare interno agli Stati-Nazione.
19. Recentemente sono scomparsi Silvius Magnago, Alfons Benedikter e Alcide Berloffa, padri dello Statuto speciale e/o della sua applicazione. Anche l’Autonomia è agli sgoccioli?
No, finché resterà ancorata alla Costituzione italiana. Tra i principi fondamentali, all’art. 5, recita: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». All’art. 6: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Mentre all’art. 116: «Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano». Il principio di unità e indivisibilità della Repubblica oppone un ostacolo pressoché insormontabile ad ogni ipotesi di secessione, quand’anche fossero consacrate in leggi costituzionali. Tra i limiti impliciti alla revisione costituzionale, infatti, in genere si fanno rientrare i principi supremi dell’ordinamento, coincidenti coi valori consacrati nei principi fondamentali. In ogni caso, per modificare la Carta sono previsti passaggi complessi e ineludibili. Le forze da mettere in campo per ottenere una convergenza politica di notevoli dimensioni e la portata del loro impatto sull’opinione pubblica hanno conseguenze altrettanto complesse e di proporzioni ragguardevoli. Consentire a una provincia l’indipendenza sarebbe un precedente “pericoloso”, perché mina l’unità già fragile dello Stato; difficile dimostrare che il frantumare l’Italia sia d’utilità per l’Europa unita.
20. A tuo modo di vedere, è finito il mito d’una Europa “panacea di tutti i mali” nazionali?
Sì. La frantumazione dell’impianto istituzionale del ’900 a colpi di picconate filo-eurocentriche, per soddisfare rivendicazioni regionali in nome di una presunta salvaguardia delle sottoarticolazioni democratiche che compongono il “calderone Europa”, incarna il paradosso dei paradossi. Gli ultimi nodi della questione sudtirolese andranno sciolti (o meglio ‘diluiti’) in Italia. L’Europa è insufficiente a garantire in sé lo sviluppo spontaneo di una società pluri-culturale, capace di allentare le tensioni latenti tra i tirolesi di lingua tedesca e ladina, gli altoatesini “italiani”. In Alto Adige/Südtirol, dove ha prevalso la logica compromissoria di un’autonomia frutto di interventi “inter-nazionali”, ogni “questione aperta” promossa a materia di competenza europea è considerata fonte di rischio, qualora si voglia agire direttamente sui meccanismi statutari. Spostare paure, ricatti e preconcetti delle unificazioni nazionali sul piano europeo risulta pretestuoso e controproducente. «Eppure, a pensarci bene, quanti problemi si potrebbero evitare se soltanto ci sforzassimo di non cedere a stereotipi e banalizzazioni omologanti. La specificità di questa terra e di chi ci abita può essere afferrata soltanto rifiutando di assegnarle un’unica forma, un unico destino. Essa non potrà mai essere solo “tedesca” (neppure per i tedeschi) e solo “italiana” (neppure per gli italiani). Parteciperà – ora di qui, ora di là – esponendo sempre un margine, un residuo d’alterità irriducibile. Ma proprio in questa sua instabilità costitutiva dobbiamo ravvisare una grande opportunità. Certo, si tratta di un’opportunità difficile da cogliere, faticosa da interpretare, qualche volta persino impossibile da spiegare a chi non ne faccia o ne abbia fatto prolungata esperienza». Sull’irriducibilità storica del Sudtirolo non posso che trovarmi d’accordo con l’autore di queste parole, l’amico Gabriele Di Luca.
21. In conclusione, quali vie d’uscita intravedi? L’indipendenza oppure la permanenza in Italia?
Alexander Langer (dopo gli studi giuridici a Firenze, la militanza in Lotta Continua e l’esperienza interetnica) importò l’esperimento verde tedesco in Italia, suggerendo il paradigma glocal «pensa globalmente e agisci localmente» come risposta più opportuna alla fase di stallo politico, colpevole di infrangere il sogno di un’Europa unita e senza Stati-Nazione. Quell’utile intuizione, frutto della lungimiranza dell’europarlamentare, può aiutarci a capire quale segnale storico potrebbe lanciare il Sudtirolo nell’affermazione di un’autentica pacificazione europea: proseguire nella contaminazione diplomatica dello Stato d’appartenenza, una lotta serrata per la comprensione fortificata del caso sudtirolese in Italia e una ristrutturazione dei rapporti con quest’ultima, favorendo un eventuale riassetto federale della Repubblica italiana. Una scelta in continuità col passato; sperimentare nuove forme di stato per “rifondare” il Sudtirolo sarebbe al contrario un atto assai coraggioso. Siamo proprio sicuri di volerlo fare, tanto convinti da poter prendere una simile decisione? Io no.
Piccola bibliografia.
Simon Constantini: “Manifest”, “FAQ” e “Confine assente o sfocato?” (brennerbasisdemokratie.eu)
Gabriele Di Luca: “Spalare le macerie” e “Michele” (Sentieri Interrotti), “Sudtirolo ideale eterno” e “La rappresentazione del contrasto etnico” (SegnaVia), “Discorso su/a/per i Verdi” (blaun.eu)
Régis Debray: “Éloge des frontières” (“No al mondo globale, torniamo alle frontiere”, repubblica.it)
Emilio Gentile: “Né Stato né Nazione – Italiani senza meta” e “Italiani senza Padri” (editori Laterza)
Alexander Langer: “Perché andrò al Brennero e cosa andrò a dire”, “Per un’Euregio più alpina che tirolese”, “Il conflitto etnico ben temperato” e “La maledizione del pendolo” (alexanderlanger.org)
Valentino Liberto: “Le due aquile”, “Un Sudtirolo indipendente dalla storia”, “Diskussionskultur” e “L’indipendenza consapevole” (blaun.eu), “Südtirol ist auch Italien” (brennerbasisdemokratie.eu)
Francesco Palermo: “Il prezzo dell’identità” (editoriale sull’Alto Adige, altoadige.gelocal.it)
Pisa, 26 febbraio 2010.
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