Sull’A. Adige di sabato è apparso un fondo di Paolo Campostrini che riassume perfettamente un atteggiamento di superiorità molto en vogue a Bolzano, non soltanto a destra, nei confronti di quello che un po’ dispregiativamente viene definito «la periferia».
L’intento è quello di creare una contrapposizione tra ciò che è considerato «moderno» ed è associato al capoluogo e quello che, meno evidentemente, è considerato «retrogrado» e campanilistico e viene attribuito ai centri minori e alle valli. Una contrapposizione di per sé artificiale ed artificiosa, che (forse) esprime il malessere e il pregiudizio del «ghetto» bolzanino nei confronti di ciò che lo circonda e non ha mai voluto conoscere, ma che certamente non funziona nei termini proposti di un dualismo tra città moderna e «periferia» retrograda.
Quel che ci viene venduto come «modernità» è sostanzialmente uno sciovinismo finto cosmopolita che trasporta la sopraffazione da parte del capoluogo — incapace anche di un solo filo di autocritica — nei confronti della «periferia» secondo le leggi di un neoliberalismo ormai fallito, che (per evocare un’immagine di Campostrini) funziona per ragioni di pancia, ma non è certo frutto della ragione. È la Bolzano ancora oggi incapace di relazionarsi con il Sudtirolo, che invece gli rivolge un esorcizzante quanto inefficace «hic patriae fines siste signa, hinc ceteros excoluimus lingua legibus artibus». Un compito da portare a termine, magari senza vincolo ideologico.
La critica di Campostrini, dal suo piedistallo, si snoda su vari punti, tutti riconducibili a un’SVP apparentemente appiattita sulle posizioni dell’estrema destra e interessata solo alle questioni simboliche perché incapace di risolvere i «problemi della gente». Certo, il partito di raccolta si trova in affanno e non ha una visione chiara per il futuro di questa terra. Ma se c’è una cosa che negli ultimi decenni ha saputo fare meglio degli altri, e che gli viene generalmente riconosciuto, è la gestione pragmatica delle risorse e della cosa pubblica a vantaggio di tutti, tedeschi italiani e ladini, ricchi e meno ricchi, città e campagna. Ci vuole una buona dose di coraggio ad affermare il contrario e voler dare lezioni, proprio da Bolzano e magari con lo sguardo rivolto a sud.
Va da sé che le questioni simboliche sono «retrograde» e «non interessano a nessuno» quando vengono poste dalla SVP, mentre sono di primaria importanza per l’identità «italiana» (etnocentrismo mai messo in forse) finché a sollevarle sono il CAI, il PDL o Donato Seppi. E tutti annuiscono.
Ma è più moderno l’attaccamento ai toponimi di Tolomei (fin sù alla Vetta d’Italia), non a caso difesi, tra l’altro, da un comitato ad hoc vicino al neofascismo, oppure è più moderno affidarsi alle direttive e alle raccomandazioni dell’ONU alla pari di galiciani, baschi, catalani o svizzeri, che hanno saputo esorcizzare le contrapposizioni etniche? Decostruendo quello che dai «fondisti» di professione ci viene venduto come «spirito europeo» o «apertura globale» è facile scoprire che negli ultimi decenni i paesi avanzati, e perfino il Sudafrica citato dal buon Bill Valente, hanno scelto di lasciarsi alle spalle le denominazioni frutto dell’imposizione.
Attualmente nessuna discussione imperniata sull’artificiale contrapposizione fra Bolzano e «periferia» può prescindere dalla riforma sanitaria. Un tema che di per sé dovrebbe essere libero da valenze simboliche — ed in «periferia» lo è.
Ma, vien da chiedersi, sono moderne la centralizzazione, la razionalizzazione e la concezione del sistema sanitario esclusivamente secondo parametri economici, oppure possono essere moderne anche considerazioni relative alla qualità della vita nei centri minori, alla riduzione delle distanze, l’avvicinamento del paziente alla famiglia, insomma un benessere diffuso anche territorialmente?
È davvero arretrata la sanità svizzera, che concede quattro ospedali regionali e due periferici al Canton Ticino con i suoi 330.000 abitanti, e ne dà addirittura undici ai Grigioni (191.000 abitanti) tra cui quello più piccolo di tutta la confederazione, in Val Müstair (2000 abitanti), la valle confinante alla Venosta?
Sono davvero moderne le alpi piemontesi e lombarde, sventrate dalle colate di cemento, svuotate e abbandonate, o potrebbero essere moderne le alpi aostane, svizzere e sudtirolesi, dotate di negozi, scuole, ospedali e servizi distribuiti capillarmente sul territorio?
È davvero moderna e auspicabile l’abolizione di tutte le misure di tutela all’interno di uno stato-nazione, prospettata da Campostrini, o potrebbe essere più moderno aderire alla Carta Europea delle lingue regionali, firmata ma mai ratificata dall’Italia, perché la costringerebbe a cambiare radicalmente le sue politiche in materia?
È moderna ed «europea» la post-democrazia italiana — implicitamente propostaci a modello — che assiste a un inaudito sfascio delle istituzioni, vede calpestare quotidianamente i valori costituzionali e mantiene l’occhio perennemente strizzato al neofascismo, oppure possono essere moderni anche modelli di coinvolgimento dei cittadini e la democrazia semidiretta, considerati alla stregua di rigurgiti medievali («rurali» e «pre-urbani») dallo stesso Campostrini all’epoca delle consultazioni provinciali?
E infine, ha ancora senso il pregiudizio nei confronti delle valli e dei centri minori in tempi di diritto allo studio, di mobilità estrema e villaggio globale, con la reperibilità di informazioni e servizi immateriali ovunque e in tempo reale?
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