di Robi Ronza
[Articolo pubblicato sul Corriere del Ticino del 17 ottobre 2019]
C’è un recente episodio che merita di venire attentamente esaminato per farsi un’idea sempre più chiara della grande distanza che — malgrado la continuità linguistica e culturale — sul piano della filosofia politica separa l’Italia dalla Svizzera italiana, in quanto parte della Confederazione Elvetica. Si tratta del polverone che si è sollevato in Italia alla notizia che in un disegno di legge della Provincia autonoma di Bolzano/Bozen l’aggettivo «altoatesino» e il nome «Alto Adige» erano stati tolti e sostituiti con le espressioni «della provincia di Bolzano» e «provincia di Bolzano».
La Provincia autonoma di Bolzano, i cui abitanti sono oggi per quasi il 70 per cento di lingua tedesca, comprende i territori germanofoni del Tirolo cisalpino che, insieme a quelli di lingua italiana (l’attuale Trentino), vennero annessi dall’Italia dopo la Prima guerra mondiale a seguito della sconfitta e poi della dissoluzione dell’Impero asburgico.
L’annessione venne legittimata in nome del principio secondo cui ci sarebbero delle “frontiere naturali”, coincidenti con la linea di spartiacque e con l’asse mediano dei maggiori bacini fluviali, che i grandi Stati formatisi nelle pianure avrebbero perciò il diritto di raggiungere a prescindere dalla volontà delle popolazioni coinvolte.
Elaborato nel secolo XVIII in Francia nel quadro delle guerre contro la Spagna per il controllo dei Pirenei, ovunque sia stato applicato il principio dello spartiacque ha condotto all’arbitrario smembramento delle comunità politiche formatesi, queste sì naturalmente, a cavallo delle grandi catene montuose e dei grandi bacini fluviali. In pratica solo la Svizzera riuscì a sfuggire a questa sorte. Altrove, dal Tirolo al Paese Basco, alle terre catalane, alle Fiandre, al Kurdistan e così via, l’applicazione del principio dello spartiacque è stato all’origine di smembramenti che hanno lasciato dietro di sé una lunga scia di disagio, di attriti e di tensioni. Nel caso della parte germanofona del Tirolo di lingua tedesca annessa dall’Italia (dove era allora di lingua tedesca l’89 per cento degli abitanti), un duro tentativo di italianizzazione forzata venne immediatamente avviato dal fascismo ben presto sopraggiunto. Senza soffermarci in dettaglio su tutto ciò che ne seguì, limitiamoci qui a ricordare che tra il 1962 e il 1969 fra l’Italia e l’Austria, in quanto patrona dei diritti dei sudtirolesi, si giunse ad un accordo garantito dall’Onu, detto “pacchetto per l’autonomia” della provincia di Bolzano, che vige tuttora.
Il “pacchetto” ha risolto tanti problemi sulla carta, ma non è bastato, né poteva bastare, a rimuovere del tutto negli italiani la diffusa impossibilità psicologica — frutto di decenni di indottrinamento nazionalistico sommerso ma non rimosso — di accettare come qualcosa di normale che ci siano parti del Paese in cui si hanno culture e si parlano lingue diverse dall’italiano. Tanto è radicata l’idea che la gente debba parlare la lingua dello Stato, e non lo Stato la lingua della gente, che viene ritenuta una generosa concessione che in un territorio in cui il 70 per cento degli abitanti è di lingua tedesca anche il tedesco sia lingua ufficiale, e nemmeno alla pari con l’italiano. Ben pochi in Italia si rendono conto che a rigor di logica e di democrazia dovrebbe essere il contrario.
Un altro sintomo del pregiudizio di cui si diceva è quello dei toponimi. La Repubblica italiana nata nel 1948 confermò infatti i 30 mila fra toponimi e micro-toponimi in lingua italiana del territorio sudtirolese laboriosamente inventati dai nazionalisti negli anni ’20 del secolo scorso e poi imposti dal fascismo (che invece ad esempio in Val d’Aosta vennero eliminati e sostituiti con gli originari toponimi francesi). Tra questi il nome «Alto Adige» che all’inizio del secolo XIX, al tempo del Regno d’Italia napoleonico, era stato dato a un dipartimento in ampia parte coincidente con l’attuale provincia di Bolzano. Con la pretesa di affermare una presunta antica italianità di quell’area si ricuperò dunque un nome risalente all’epoca di una dominazione francese. Tanto caro è però questo nome alla minoranza di lingua italiana della Provincia di Bolzano — che adesso vive il disagio tipico dei “coloni” eredi di un tentativo fallito di colonizzazione, e che oggi è obiettivamente svantaggiata — che alla notizia della sua scomparsa da un disegno di legge si è avuta la levata di scudi di cui si diceva.
Ieri il presidente della Provincia di Bolzano, Arno Kompatscher, leader della Südtiroler Volkspartei, il locale partito di maggioranza, ha gettato acqua sul fuoco annunciando che il testo del disegno di legge verrà modificato reintroducendo i due termini che erano stati espunti. Il problema politico è risolto, ma resta il problema culturale.
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