Venerdì scorso (23.08.) sul quotidiano A. Adige è comparso un fondo di Federico Guiglia che mi è subito piaciuto per la sua estrema chiarezza. In tema di toponomastica, dice Guiglia, non c’è bisogno di alcun compromesso, perché il compromesso c’è già ed è racchiuso nello statuto di autonomia: i toponimi imposti dal fascismo, «secolari» e competenza dello stato (falso), non si toccano — semmai si ufficializzano quelli «tedeschi (e ladini)». Un principio che sarebbe stato reso ancor più insormontabile da recenti pronunce della Corte costituzionale (quella su Sèn Jan, imprimis), che con la sua sentenza 42 del 2017 avrebbe affermato anche la «primazia della lingua italiana».
Quella esposta da Guiglia è una concezione particolare di «compromesso», ma non per questo meno diffusa.
Un regime totalitario, in due fasi, stravolge la toponomastica di un territorio con lo scopo — chiaro e dichiarato — di snazionalizzare e assimilare la popolazione residente. In un primo momento, con l’uso della forza, impone una toponomastica inventata (pessimo surrogato) e poco dopo, sempre con la forza, sopprime totalmente i toponimi preesistenti.
Lo stesso stato, diventato repubblica, posteriormente rinuncia alla soppressione (senza preoccuparsi minimamente della reintroduzione), ma — in barba alle convenzioni internazionali — nemmeno a una virgola dell’imposizione. Ecco pronto il «compromesso», a sua volta prontamente affidato a un arbitro di parte, perché in seno alla Corte costituzionale la minoranza sudtirolese conta — al massimo — per lo zerovirgola del proprio peso demografico/elettorale.
Se questo veramente abbiamo il coraggio di chiamarlo un compromesso, mi piacerebbe capire quale sarebbe stata l’alternativa. La continuazione delle politiche fasciste, senza soluzione di continuità?
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