Ieri sera, al termine della discussione con il monarca del Liechtenstein (della quale avremo modo di riferire), ci ha avvicinato un signore per comunicarci che aveva consultato il nostro sito, ma che purtroppo non poteva essere d’accordo con le nostre proposte. Il suo desiderio più grande, ci ha confessato, è quello che si smetta al più presto di parlare di autodeterminazione (a quanto pare intrinsecamente «cattiva» e «pericolosa»). Quel che a suo dire lo preoccupava maggiormente, però, era che un raggruppamento progressista di sinistra come il nostro sostenesse un progetto «delle destre», legittimandole.
Ora, qui c’è un problema di fondo, una confusione fra causa ed effetto se così vogliamo. Nella maggior parte dei casi in politica non si sostiene un’idea per legittimare o delegittimare l’avversario politico, ma la si sostiene perché la si ritiene giusta — o almeno così dovrebbe essere. Se un partito di destra chiede la chiusura di un campo nomadi (per cacciar via i suoi abitanti) ed un partito di sinistra chiede la stessa cosa (ma per dare ai suoi abitanti una sistemazione più degna), la soluzione non può essere quella di chiedere alla sinistra di rinunciare alle proprie idee per non legittimare (legittimare solo in apparenza!) la destra.
La pretesa di sopprimere la discussione su un determinato argomento, in uno stato di diritto, si commenta da se. Che il tema dell’autodeterminazione prima o poi si esaurisca «da sé» può essere un desiderio legittimo, ma la veemenza con cui la questione viene posta quasi quotidianamente da una fetta della popolazione non può far pensare che ciò accada senza il passaggio naturale in democrazia, rappresentato da una scheda nell’urna (ma molto più complessamente da tutto il processo che precede il passaggio elettoral-referendario).
Quello degli «utili idioti» che legittimerebbero un desiderio condiviso dalle destre, comunque, è un rimprovero abbastanza ricorrente — anche se ultimamente prevale nettamente la consapevolezza che il nostro progetto difficilmente porta acqua al mulino di chi vuol dividere.
Diamo un’occhiata ai rapporti di forza: certo, se consideriamo il settore politico dichiaratamente indipendentista, (diversamente da ciò che avviene in Scozia e in Catalogna) la sinistra progressista per ora in Sudtirolo è chiaramente minoritaria. In una democrazia però non si decide mai «per settori», decide sempre la popolazione intera, ovvero la maggioranza (più ampia possibile).
Se un giorno la popolazione sudtirolese decidesse democraticamente di secedere, e se anche la componente di destra all’interno del secessionismo (tutt’altro che un movimento organico) fosse prevalente, il percorso da seguire verrebbe pur sempre scelto dalla maggioranza delle e dei sudtirolesi. E non già dalla maggioranza fra i secessionisti. Quindi, se la maggioranza della popolazione è favorevole alla pacifica convivenza nell’odierna cornice autonomista, sarà democraticamente libera di dare tale impostazione anche all’ipotetico stato indipendente. Paradossalmente allora la «maggioranza di destra nel settore secessionista» sarebbe stata l’utile idiota per la realizzazione di uno stato indipendente aperto, inclusivo e tutt’altro che ispirato ai suoi «valori», finché tali «valori» nella popolazione complessiva sono minoritari.
Se crediamo in un futuro in cui gli stati nazionali, vero male dello sciagurato ventesimo secolo, siano finalmente destinati a scomparire, battere in ritirata non può rappresentare un’opzione. Al contrario: Bisogna evitare che la popolazione, per raggiungere un fine assolutamente legittimo e democratico come l’indipendenza, venga costretta ad affidarsi alle destre. Dobbiamo allora essere attori «creativi» di questo processo, con una progettualità alternativa e positiva da contrapporre alle improponibili idee di chi volesse dividere ed escludere — nella consapevolezza che la maggioranza della popolazione non ha alcuna intenzione di mettere a repentaglio la convivenza, ma semmai di approfondirla.
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