su richiesta dell’autore volentieri pubblico:
di Valentino Liberto
Avete la capacità di conservare tutto, persino i monumenti fascisti, con Dux scritto sopra e davanti ai vostri ministeri. Qui in Germania l’avrebbero subito fatto saltare in aria. Molti scrittori ed editori stranieri mi chiedono di visitare a Berlino edifici del nazismo: li devo deludere, del poco che rimase in piedi nel dopoguerra abbiamo fatto tabula rasa. Io invece sono convinto che si debbano lasciare in piedi gli edifici del passato: i padri devono avere il coraggio di esibire ai figli le proprie vergogne.
Klaus Wagenbach, “L’espresso”, 29 dicembre 2010.
In merito all’editoriale di Gabriele Di Luca (Bolzano senza Duce) sul fregio di Hans Piffrader in piazza Tribunale, mi permetto di sottolineare alcuni passi falsi in esso contenuti. Un crescente cinismo da Realpolitiker, infatti, ha portato ad una diffusa “febbre da cavallo (col Duce)” anche sul fronte idealista degli interetnici, ovvero di quanti – nel variopinto panorama sudtirolese – non si piegano a una convivenza a senso unico, prigioniera d’un labirintico etnocentrismo. Fermo restando la dubbia moralità del “voto di scambio” tra PdL e SVP (l’Autonomia dinamica e il relativo passaggio di competenze, come ad es. l’ottenimento dello Stelvio, non c’entrano) occorre domandarsi se il depotenziamento di un’opera marmorea risalente al fascismo passerà per la sua rimozione forzata. Ma soprattutto: diverrà occasione per consolidare una più autentica convivenza? Bolzano/Bozen, dopo, sarà veramente migliore?
Lo status perennemente spaesato degli italiani sudtirolesi incarna il nodo irrisolto dell’Autonomia. D’altra parte, gli stessi interetnici danno per scontato che gli “altoatesini” si identifichino nei monumenti fascisti. Lo si accetta come dato di fatto incontestabile, tanto che – appena scoppia il caso – ribadiscono le ragioni di tale nesso storico. Una distorsione macroscopica è affermare che l’intero ethos del gruppo linguistico italiano si materializzi nelle pietre del Ventennio; meno il sospetto che nell’allontanare queste ultime dalla visione di chi giunge nel capoluogo, s’intenda in realtà nascondere sotto il tappeto una spiacevole polvere, depositata da tempo immemore sulla superficie dell’eden sudtirolese. Il dovere di ragionare su quel pericoloso legame col fascismo dei simboli non toglie però il diritto (del tutto o in parte inconsapevole) di vedersi garantita la possibilità di un esame di coscienza. Non sottovalutiamo perciò il valore (a sua volta simbolico!) della rimozione del bassorilievo, da un lato per il significato d’una rivincita “tedesca” e dall’altro perché strumentalizzato dai partiti italici, descritta come ennesima disfatta “italiana”. Né sopravvalutiamo – come avvenne per il fallito (e precipitoso, nel metodo) cambio di nome a piazza Vittoria – il presunto beneficio prodotto da un atto simile sullo stato di salute della convivenza, spacciandolo come panacea di tutti i mali. Quale dunque l’utilità di una demolizione fisica? Non è il percorso piuttosto che il risultato in sé (non giocoforza positivo) il fulcro di un lavoro di tessitura?
Il mezzo s’è trasformato in mero fine: lo strumento per depotenziare le radici negative della comunità italiana (cioé attraverso il confronto consapevole con i “propri” ingombranti relitti fascisti) è finito per essere demolito di conseguenza, divenendo un obiettivo inutile in quanto fine a sé stesso. Se anziché demordere, si fosse perseverato nella direzione d’un impegno congiunto e più coraggioso tra le istituzioni (in primo luogo nella città di Bolzano) per una decisa pianificazione culturale in grado di contestualizzare la storia della Landeshauptstadt, quel fregio sarebbe potuto restare lì dov’è, perché non rappresenterebbe null’altro che sé stesso. Un progetto di forte impatto sulla popolazione, che dialoghi con essa e vada ben aldilà delle consuete dichiarazioni d’intenti sulla fantomatica “memoria condivisa”, altrimenti inutile. Non possiamo indietreggiare e contraddirci sull’essenza stessa della pratica della convivenza, magari presi dalla tentazione di dare uno schiaffo agli italiani o veder in frantumi il PdL locale lacerato dalle contraddizioni interne. Anche così fosse, c’è l’effetto boomerang. Agli italiani è tolto l’unico peso del quale dovevano liberarsi autonomamente, tra le poche occasioni storiche rimaste per partecipare con pari dignità al ricco banchetto dell’Autonomia, dopo anni di opposizione. Dovevano espiare “le colpe dei padri” da soli, non trovarsi anche questa volta un pacchetto già bell’e pronto, servito su un piatto d’argento. La SVP, oltre a fregiarsi dei successi nella lotta serrata combattuta contro Roma, in prima fila (e in solitaria) per 60 anni, ora potrà dire di aver trovato persino la formula risolutiva per la pacifica convivenza. Senza che bolzanini e altoatesini ne abbiano preso parte.
Per tali ragioni, è del tutto fuori luogo ralleggrarsi del risultato di una forzatura che priva i destinatari stessi della necessaria partecipazione, ancora una volta condannando gli italiani alla dipendenza da Roma. Un’operazione di palazzo per allontanare i relitti: se il fine ultimo era questo, bastava un po’ di tritolo. Una piazza fascistissima senza il Mussolini in pietra, infatti, non eliminerà i fantasmi della storia; essi permarranno in una teca di vetro, forse meno visibili ma sicuramente più subdoli. Legare il futuro ad un monumento piuttosto che ad una riflessione comune su ciò che esso ha comportato, è sinonimo di immaturità. In un presente di prosperità, ci troviamo difronte a un Sudtirolo incapace di “convivere” coi simboli storici d’un passato nefasto, che anziché conservarli laddove essi furono eretti, deve “nasconderli” in qualche inesplorato labirinto museale. Il fantasma del Duce a cavallo come il Minotauro di Creta. Nell’attesa d’un volenteroso e temerario Teseo (collettivo?) capace di ucciderlo.
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