«Un’analisi corrosiva e spietata degli idoli e dei miti etnici che frenano la società sudtirolese e non solo», promettono i due autori Stefano Fait e Mauro Fattor con la loro opera «Contro i miti etnici» (uscita nel settembre scorso presso l’editore Raetia), con cui si mettono «alla ricerca di un Alto Adige diverso.» Partono dall’ipotesi che questa provincia sia afflitta da «orpelli etnici istituzionalizzati», quindi da una specie di fumogeno — oppure oppio per il popolo come la religione per Karl Marx — creato «dalle persone che campano grazie alla separazione, perché laddove non esiste un problema non c’è bisogno di pagare qualcuno per gestirlo e contenerlo (senza risolverlo).» Quindi il tema dei due autori non è la difficile organizzazione della convivenza quotidiana di due-tre gruppi etnolinguistici che chiedono pari diritti, e le sue implicazioni, ma la dimensione fittizia dell’etnicità stessa, strumento escogitato da qualche politico per dividere e dominare i cittadini, e la proiezione di un’alternativa trans-etnica. Per liberarsi da questo fumo negli occhi i miti etnici vanno smontati e non solo. Con grande impeto e ricco bagaglio scientifico i due autori si accingono a distruggere l’etnicità come categoria esistenziale utile per una società libera e moderna. Una volta liberati dai paraocchi etnici, cioè dalla «benevola segregazione etnica altoatesina», ogni vittimismo e patriottismo sarà roba di altri tempi e potremo finalmente goderci la nuova società non solo multiculturale, ma transculturale.
Per sollevare i sudtirolesi, sudditi dei miti etnici, dalla «ipnosi delle radici e della patria», Fait e Fattor partono da una critica di fondo dei concetti di «Volk», «Heimat» e delle politiche nazionaliste che «bovinizzano» le masse. Con un argomentario filosofico che spazia da Socrate fino Chomsky gli autori mettono in questione non solo l’etnicità, ma postulano di andare «oltre il culturalismo», affermando che non esistono lingue minacciate, ma solo politici che fanno crede alla gente che qualcuno voglia sottrarre loro la propria lingua. Sorprendentemente, anziché passare da questo teorema forte a una critica generale del nazionalismo delle 190 nazioni-stato in cui è suddiviso il mondo odierno, gli autori sono dell’avviso che questi presunti mali storici si concentrino nel gruppo etnico tedesco del Sudtirolo. Avrei meno problemi ad accettare il loro approccio se domani tutti i governi nazionali si mettessero ad un tavolo per decidere l’abolizione ufficiale delle lingue nazionali, l’abbandono immediato del principio dell’integrità nazionale degli stati membri (che il Trattato di Lisbona dell’UE riconosce come principio supremo), se scegliessero una lingua mondiale di comunicazione lasciando ogni altra attività culturale alla libera scelta dei privati post-etnici e atomizzati. Certo, sarebbe un mondo più tetro e noioso, ma sicuramente libero di proporzionali etniche e patentini di bilinguismo, eroi nazionali e lotte sui toponimi bilingui. Ingenuamente mi vien da chiedere: ma perché con quest’opera di de-costruzione etnica e culturale dovremmo iniziare proprio nel piccolo Sudtirolo, lo 0,1% della popolazione dell’UE? Perché dovrebbero essere le minoranze nazionali a liberarsi del bagaglio etnico lasciando fuori considerazione chi esercita dominio culturale in forma statale?
Una tesi centrale del lavoro di Fait e Fattor è la «superstimolazione etnica», che in Sudtirolo vedono concretizzarsi in una serie di sintomi partendo da manifestazioni dello Heimatbund, passando alle posizioni di qualche esponente della SVP e le rivendicazioni politiche della destra patriottica per arrivare a qualche spericolata affermazione di giovani Schützen. A parte l’analisi fin troppo unilaterale della società locale che da per scontato che la parte italiana non mostri nessun sintomo di «superstimolazione» o di attaccamento a simboli etnico-culturali, questo concetto non mi pare possa riflettere il carattere della società sudtirolese e delle forze che animano la sua dinamica interna. Non dubito che in Sudtirolo l’identità etnico-culturale — l’atteggiamento di «essere la mia lingua, essere la mia cultura», direbbero Fait e Fattor — sia particolarmente sentita. Anche chi ha solo sfiorato la storia di questa terra dell’ultimo secolo può facilmente spiegarsene le ragioni. È un fenomeno risaputa da chiunque si occupi di minoranze etniche. Il sudtirolese medio non è più legato alla presunta ideologia del «Bergbauer», è molto più «moderno» di quanto i due autori dalla loro scrivania a Bolzano immaginino. Ma nella vita quotidiana del Sudtirolo non credo si possa vivere più «stimolazioni identitarie» che in altre regioni alpine simili. Piuttosto si tratta di gente che vuole vivere e organizzare la sua comunità secondo i propri valori e parametri culturali, come pure i vicini al sud e al nord. Invece di estenuare il lettore con tante pagine di approcci filosofici post-etnici, gli autori avrebbero fatto meglio a calarsi di più nella realtà quotidiana della vita dei sudtirolesi.
Gli autori riscoprono l’acqua calda quando affermano che l’etnicità sia una costruzione sociale, basata su processi di ricerca e trasmissione di identità individuali e collettivi. Un concetto primordiale di etnicità basato su «Blut und Boden», su caratteristiche etniche di gruppi endogami o omogenei è superato pure dalle nostre parti. E chi dubita che l’etnonazionalismo possa sfociare in gravi conflitti come quelli vissuti in Bosnia, in Irlanda del Nord e in Palestina. Paragoni fin troppo sviati per il tranquillo Sudtirolo. Dopotutto, del nazionalismo non sono attori principali gli stati nazionali con i rispettivi popoli titolari? Le minoranze etniche lo sono semmai di riflesso, dovendo organizzare la loro identità culturale in un contesto dominato dalla cultura dominante dello stato. Oppure Fait e Fattor considerano l’Italia un paradiso multiculturale, il migliore dei mondi per le minoranze etniche?
Nell’ottica di Fait e Fattor il cittadino globale post-etnico percepisce «l’etnicità» come puro fardello, come retaggio pesante del passato. È un soggetto multilingue libero da costumi tradizionali, che gira il mondo senza «culturalismi», si diverte negli spettacoli folcloristici (che vanno bene per i popoli indigeni), assaggia le ricette etniche, ammira l’architettura etnica e si stupisce della cultura religiosa. Un bel supermercato, in cui l’etnicità diverte e non da fastidio. Guai se «l’etnico» si fa anche politico. Tornato a casa, il cittadino post-etnico non è interessato a confrontarsi con tali relitti del passato. Un atteggiamento che mi ricorda le autorità cinesi, che dall’alto della loro civiltà coccolano le minoranze etniche finché si limitano a coltivare i loro costumi. Appena affiorano le rivendicazioni politiche di autogoverno l’etnicità si fa sospetta, la tolleranza inizia a sgretolarsi. Presentata in questi termini, la visione di Fait e Fattor di una società post-etnica del Sudtirolo finisce ad essere una proiezione di un nuovo mito, sganciato sia da un’elaborazione della storia della minoranza sudtirolese, sia da un’analisi empirica della realtà quotidiana dei sudtirolesi. «Il presupposto per una buona convivenza — così una delle conclusioni degli autori — è andare oltre il culturalismo». Di culturalismo probabilmente pochi sudtirolesi s’intendono, ma difficilmente immaginano un futuro senza la loro lingua e cultura, senza uno stretto legame alla loro territorio, senza collegamento al mondo linguistico tedesco, cioè le condizioni culturali «normali» di ogni cittadino nei paesi confinanti. Tutto questo non è insolito per le microsocietà regionali europee non dico le più «moderne», ma quelle normali, tipiche, riscontrabili dovunque. Fait e Fattor nel loro lavoro stimolante (poteva sicuramente essere più conciso) propongono una visione idealista, normativa sull’etnicità, ma troppo lontana dalla realtà che le persone vivono, e dalle preferenze che concretamente ogni giorno esprimono. Inoltre, a parte le schermaglie sui vari simboli, il Sudtirolo oggi non sembra essere zona di un conflitto etnico acceso. Nella democrazia, con tutti i suoi limiti, la popolazione sceglie secondo le sue preferenze e conoscenze, che piaccia o meno agli scienziati post-etnici. Senza soccombere al potere dei fatti, voler insegnare cosa in fondo dovrebbero volere è un atteggiamento non poco arrogante. L’uomo post-etnico, che «contiene la moltitudine culturale» ovviamente non fa per i sudtirolesi. Forse sono semplicemente come i trentini e i nordtirolesi, interessati a vivere nella propria cultura, organizzando una buona convivenza con gli altri gruppi presenti sullo stesso territorio, aprendosi e modernizzandosi secondo i propri canoni e bisogni. Forse occorre una certa dose di modestia per rispettare delle scelte culturali di gruppi che poi si riflettono sul livello politico, senza stigmatizzarli come «bovinizzati dai manipolatori etnici».
Bibliografia:
Stefano Fait/Mauro Fattor
Contro i miti etnici
Alla ricerca di un Alto Adige diverso
RAETIA, Bolzano 2010, 222 pp., 18.- Euro
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