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La salute di una lingua.

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Pochi giorni fa (il 30 giugno) sulla TV pubblica catalana (TV3) — nell’ambito del formato 30 minuts — è andato in onda un documentario sullo stato di salute della lingua catalana, dal titolo Llenguaferits. L’ho trascritto e tradotto quasi tutto, per via dei parallelismi che se ne possono trarre per la situazione linguistica (del tedesco, dell’italiano e del ladino) in Sudtirolo. E, ovviamente, anche per le differenze (piccole e grandi) che ci sono.

Ad ogni modo sono convinto che il contenuto possa essere di grandissimo interesse per la nostra realtà. Alcuni passaggi, quelli che, nel bene e nel male, ritengo più significativi, li ho voluti evidenziare, sottolineandoli.

Presentatore: Buona sera. La salute del catalano è sempre stata, e continua a esserlo, un tema controverso. Filologi e patiti della lingua da anni discutono se la lingua sia [già] condannata, e alcuni, perfino, fanno un pronostico e ne prevedono la disapparizione entro pochi decenni. Però, più in là di queste previsioni negative, la situazione in cui oggi si trova il catalano merita una nuova riflessione. Perché il suo futuro ormai non è più legato solamente all’ostilità dello stato spagnolo o al grado di ufficialità, bensì [anche] a nuovi elementi. Innanzittutto una nuova demografia. Ci sono un milione e mezzo di persone nuove arrivate che parlano oltre 200 lingue materne. Però anche, e questo è un segnale di allerta molto chiaro, le nuove abitudini di svago dei bambini e dei giovani. Le nuove generazioni hanno smesso di consumare la televisione convenzionale e cercano in internet i loro punti di riferimento. E nella rete, su YouTube o su Instagram, il catalano è marginale. Gli ostacoli sono evidenti, e senza cambiamenti profondi la fragilità del catalano diventerà irreversibile. Però alcuni filologi dicono che i parlanti [del catalano] hanno ancora a portata mano il recupero degli spazi persi. L’alternativa, la sparizione dallo spazio pubblico, la vedremo nel reportage [realizzato] nei territori catalalofoni in cui la lingua è già stata sostituita.

Albert Sánchez Piñol (scrittore): «Il catalano è sempre stato in pericolo da quando lo conosco. Ho la sensazione che sia una lingua che ha una cattiva salute di ferro.»

Carme Junyent (linguista): «Uno dei tratti che catatterizzano i popoli che hanno perso la lingua è che nessuno se n’è reso conto, fin quando non c’è stato più nulla da fare.»

Víctor Amela Bonilla (giornalista e scrittore): «Non sparirà. Cioè, ci sono stati 40 anni di una dittatura feroce che, coscientemente, ha voluto eliminare il catalano dall’uso culturale, dall’uso istituzionale, dall’uso pubblico… e ha fallito.»

Pau Vidal (divulgatore linguistico): «Ripetono il mantra che recita „Se la lingua è sopravvissuta al franchismo non morirà mai“, che è un’assurdità sociolinguistica, perché Netflix è molto più potente del franchismo.»

Neus Nogué (filologa dell’Universitat de Barcelona): «Quel che è importante è che la gente parli, che parli la lingua; in questo caso, che parli catalano, meglio o peggio, ma che lo parli.»

Àlex Hinojo (attivista culturale): «O lo usi tutti i giorni o sparisce. Perché l’alternativa è molto semplice, è qui [pronta] ed è molto comoda. Quindi tutti gli aspetti del nostro quotidiano richiedono attivismo. Sì.»

David Carabén (cantante del gruppo Mishima): «È meglio continuare a difendere il catalano perché è una lingua molto… molto utile, che non perché è una lingua che sta per morire. Io ho sviluppato un grande amore per questa lingua, però se un giorno si perdesse, succederà perché non c’è abbastanza gente che l’ama.»

Aiguatèbia (Conflent), Francia.

Louise Pagés (abitante di Aiguatèbia): «Non sapevamo una parola di francese; a casa parlavamo sempre con i nostri parenti, parlavamo sempre in catalano.»

El Rimbau (Rosselló), Francia.

Clemence Pi (abitante di El Rimbau): «Parlavamo catalano, eh. Tutti parlavano catalano all’epoca. Tutti, le mie sorelle e mio fratello, che è più giovane, parlavano catalano.»

Maria Dolors Solà (abitante di El Rimbau): «Quando andavate a comprare nei negozi, tutti parlavano catalano…»

Clemence Pi: «Se avessimo parlato in francese ci avrebbero preso per parigini.»

„Off“: Sono le ultime parlanti del catalano in villaggi dove nessuno [più] lo capisce. Nell’anno 1700, la Francia proibiva il catalano nella Catalogna settentrionale, però per strada tutti continuavano a parlarlo. Finché a metà del secolo scorso tutta una generazione prende la decisione di non trasmetterlo più ai figli.

Maria Dolors Solà: «Questo lo sappiamo perché famiglie dove ci sono figli nati prima della guerra e figli nati dopo la guerra, si può dimostrare che ai figli nati prima della guerra i genitori parlano in catalano, e ai figli nati dopo la guerra, nella medesima famiglia, i genitori parlano ai figli in francese.»

„Off“: La scuola repubblicana francese, libera e gratuita, diede il colpo di grazia al catalano e ad altre lingue che si parlavano in Francia, proibendole e degradandole nelle aule. Lo spirito di questo divieto si trova ancora oggi nelle scuole d’Aiguatèbia, nel Conflent, dove come in molte scuole c’era scritto „parlate francese, siate puliti“.

Louise Pagés: «Se parlavamo catalano ci punivano, e siccome avevamo l’abitudine di parlare in catalano, all’inizio ci scappava sempre, e allora ci punivano, ci facevano disegnare le righe sui fogli, o ci mettevano all’angolo, in ginocchio, a colpi. Ce n’era uno che ci batteva sulle dita con una bacchetta.»
(Mostrando una foto) «Qui entravo a scuola, a 5 anni, nel momento in cui sono entrata, perché parlavo catalano, mi ha dato un colpo di pugno sul naso, mi ha rotto il naso.»

Maria Dolors Solà: «Che cosa vi diceva la maestra quando parlavate, quando vi sentiva parlare in catalano?»

Clemence Pi: «Diceva: „Il faut parler français” – Il faut parler français.» [Si deve parlare francese.]

Maria Dolors Solà: «Ma c’erano scuole in cui quando i bimbi parlavano in catalano, a chi parlava in catalano davano un oggetto, una pietra, una scatola di fiammiferi, e dopo lui lo passava al prossimo che parlava catalano. Tutti si controllavano, ciascuno controllava l’altro. E l’ultimo che rimaneva con l’oggetto in mano, la pietra o quant’altro, veniva punito. Gli facevano ricopiare „parlerò francese“.»

Scuola „Bressola“ di Sant Galdric, Perpinyà, Francia

„Off“: Il catalano ha fatto un salto di tre generazioni in Catalogna settentrionale. Lo parlano i 1.000 alunni della „Bressola“, la scuola nata nel 1975 per recuperare la lingua proibita. Un miracolo linguistico in un ambiente monolingue francese.

Maestro (Llorenç Genescà): «Tutto quel che facciamo ha come asse centrale la lingua. Gli adulti nella scuola non possono mai lasciare soli per 5 minuti i bimbi, dobbiamo accompagnarli sempre, perché molte volte quel che manca sono le parole, i modi di dire, le espressioni, e per questo hanno bisogno di punti di riferimento, devono sentirlo, devono impararlo.»

Sant Quirze del Vallès (Vallès Occidental), Spagna

Padre (Òscar Fernandez, giornalista): «Tutte le mattine porto i bambini a scuola, e allora quel giorno arrivo e Aleix incontra un bimbo. E la mia sorpresa era che Aleix ha tirato fuori i Cromos [delle figurine, ndt] e, andando dritto verso di lui, gli ha detto [in castigliano]: „Ho Cromos, possiamo scambiarle, guarda chi mi è venuto fuori.“ Questo mi ha sorpreso e gli ho chiesto: „Come mai parlate in castigliano se normalmente [tra di voi] parlate in catalano?“ E tutti e due mi rispondono: „No, è che il castigliano è la lingua della scuola“. Ai miei tempi c’erano dei giochi che si facevano in castigliano. Credo che la differenza, ora, sia che perfino fra catalanofoni passano al castigliano.»

„Off“: L’immersione linguistica blinda da decenni il catalano nelle scuole pubbliche e convenzionate in Catalogna. Però la lingua dominante in classe è molto più fragile quando si entra in un altro ambito: il cortile.

Si vedono bambini che giocano a calcio parlando in castigliano.

„Off“: Qui la situazione è di alternanza e di predominio chiaro da parte del castigliano.

Francesc Xavier Vila (Direttore CUSC-Universitat de Barcelona): «I contesti in cui c’è una forte alternanza [fra le lingue], molto costante, solitamente indicano processi di sostituzione linguistica. Nel momento in cui mi è indifferente parlare una lingua piuttosto che un’altra con la stessa persona e continuo a cambiare tra le due lingue, vuol dire che le due lingue per noi sono ugualmente „proprie“. E se sono ugualmente proprie, in fondo, se sono esattamente uguali, ce n’è una di troppo.»

„Off“: La Catalogna ha accolto un milione e mezzo di immigrati negli ultimi 10 anni. I minori devono frequentare la scuola, e prima di entrare in classe gli si insegna il catalano in un corso d’accoglienza.

Carme Sánchez (responsabile programmazione linguistica della scuola Puig Castellar): «Qui arrivano in condizioni molto dure, a volte con questioni personali complicate. E questo rende difficile che un alunno sia pienamente capace di imparare un nuovo linguaggio. Sono alunni stressati, alunni che patiscono un dolore.»

„Off“: Nella scuola superiore Puig Castellar, nel quartiere Singuerlín di Santa Coloma de Gramenet, quasi tutti gli alunni che oggi frequentano il corso d’accoglienza sono latinoamericani, e il castigliano è la loro lingua comune.

Chenxiao Xiang: «Sono arrivata a natale 2006, e sono entrata nella scuola Puig Castellar nel 2007. Non sapevo dire nemmeno ciao, non sapevo niente, niente di niente. Volevo imparare la lingua, volevo imparare il catalano, ossia… non sapevo che fosse catalano, volevo imparare la lingua che parlavano i professori.»

„Off:“ Chenxiao aveva 13 anni quando è arrivata al corso d’accoglienza. Non sapeva né il catalano né il castigliano e non sapeva nemmeno distinguerli. Dopo un anno è passata alla classe ordinaria, dove tutti, eccetto il maestro, parlavano castigliano.

Chenxiao Xiang: «Prima di entrare nella classe normale pensavo che tutti parlassero il catalano, come me. Ma dopo essere arrivata in classe un giorno ho scoperto che i compagni parlavano un’altra lingua.»

Albert Sánchez Piñol: «Sono andato a fare dibattiti in molte scuole in diverse parti di questo paese… e vedi che ci sono un sacco di scuole dove la legge d’immersione linguistica semplicemente non si applica; è che non si parla neanche una parola di catalano, i professori non lo usano perché gli costa [energia], logicamente, è così, no? Però è molto sorprendente che ci sia tanto dibattito politico su una cosa che non esiste.»

Carme Sánchez: «La scuola ha un peso importante, ma è che non… non possiamo fare tutto noi. Ci sono altri ambiti linguistici che dovrebbero essere responsabili.»

Pau Vidal: «È vero anche che quel quasi-catalanofono in cui ti si è trasformato l’alunno venuto da fuori, in molto meno tempo rispetto a quel che ci ha messo la scuola a „dipingerlo“ di catalano… la strada lo stinge.»

Chenxiao Xiang: «Quando vedono la tua faccia, direttamente ti parlano in castigliano. Perché non collegano una straniera col catalano.»

Francesc Xavier Vila: «La persona cui si parla sempre in castigliano non avrà la possibilità di imparare il catalano. D’altro canto, e questo succede spesso, questa persona finisce per avere la sensazione che il catalano è la lingua di un gruppo di cui non fa parte.»

Nicoleta Bustan: «Vengo dalla zona della Transilvania, diciamo. E, sì, sono venuta qui, perché, chiaro, avevo finito di studiare e vabbè, è Spagna, dunque mi sono detta: „Voglio vederla“, no? Mi ricordo che facevano corsi di… questo, di apprendimento e ci sono andata due giorni, ma io trovo che per imparare una lingua è chiaro che anche studiando si impara, no? Pero trovo che è… è parlando con la gente, no? Sentire, parlare, e allora si impara più facilmente.»

„Off“: Ad anni luce dall’area metropolitana [di Barcellona], nelle zone dell’Ebre è dove, di gran lunga, si parla di più il catalano. L’integrazione di qualsiasi immigrato nella zona è quasi impossibile se non si fa in questa lingua.

Nicoleta Bustan: «Il mio capo faceva: „No, non parlate in castigliano, che lei deve imparare il catalano“. E lui sempre mi parlava in catalano. Voglio dire, mi ha dato molto sostegno, no?… per poter parlare e imparare il catalano.»

Chenxiao Xiang: «Se una persona sa la tua lingua è perché questa persona è interessata alla tua cultura, è interessata alle tue tradizioni, vuole conoscere un’altra cultura, e questo mi sembra molto importante.»

Chloe Phillips (cantante): La reazione è: „Oh! Sto impazzendo! Una straniera che parla catalano!“ E questo, chiaro, mi fa anche sentire come: „Ahi, che buona cosa aver fatto lo sforzo di imparare questa lingua… e che la gente sia così felice“. Perché una straniera che parla inglese non è tanto sorprendente, no?

„Off“: Chloe Phillips è nordamericana, ed è arrivata 7 anni fa a Vilanova i la Geltrù per frequentarvi una classe di maturità.

Chloe Phillips: «Il primo giorno mi parlavano in castigliano ma dopo, il secondo giorno, mi hanno detto: „Qui a casa parliamo in catalano“, e io gli ho risposto: „Questo cos’è?“ Beh, sapevo che il catalano esisteva, ma non sapevo che si parlasse, pensavo che fosse come l’occitano, per esempio.»

„Off“: Ora è tornata in Catalogna per intraprendere una carriera musicale. Qui ha reso popolari in rete alcuni commenti sulla lingua e l’inerzia rispetto al castigliano. Come quella che ha vissuto quando è andata a un dibattito a Barcellona.

Chloe Phillips: «C’era una persona che diceva „per me andrebbe meglio il castigliano“. C’erano più o meno 20 persone, e anche anziani per i quali vedevo che era uno sforzo parlare in castigliano, ma nonostante ciò loro provavano a fare lo sforzo di parlare in castigliano, per quell’unica persona che preferiva parlare in castigliano. E dico: „Perché dovete sempre cambiare lingua? Siete abituati a fare sempre così, no?“»

Carme Junyent: «Optiamo per la lingua non connotata, la lingua di cui sappiamo che non ci creerà problemi, e credo che questo sia la manifestazione del fatto che, visto che tutti facciamo parte di una comunità… che abbiamo preso tante bastonate per il fatto di parlare la nostra lingua, proviamo a evitarlo, ossia, non provochiamo.»

„Off“: Un video di Pol Gisé un anno fa ha avuto centinaia di migliaia di visite in internet. Su YouTube e su Instagram il castigliano è chiaramente predominante, soprattutto per l’accesso [che permette] al mercato latinoamericano. E qui i numeri sono schiaccianti: 9 su 10 youtubers catalani si esprimono in questa lingua in internet. Lo svago di adolescenti e giovani attualmente passa da questi punti di riferimento, e il fatto che il catalano vi sia marginale è uno dei sintomi più allarmanti [dal punto di vista] della lingua.

Pol Gisé (YouTuber): «Ho deciso di creare un canale in catalano, perché c’era molta gente che me lo chiedeva e ho detto: „Dunque, guarda, farò un canale in catalano che si chiamerà Polgisecat.“ E ho iniziato a pubblicarvi videos in catalano.»

Juliana Canet (YouTuber): «Di gente che fa cose in castigliano ce n’è moltissima, e di gente che fa cose in catalano ce n’è talmente poca che il poco lavoro che c’è è solo per noi. È un concetto che si chiama „microinfluencer“, che ha un pubblico molto concreto. Dunque, se la Carta Giovane [catalana] vuole una collaborazione non chiederà a Dulceida, anche se lo fa in castigliano e ha molti seguaci, perché il pubblico che li interessa è tutto da me e chiedo molto meno soldi.»

[…]

«È che io credo molto negli esempi. Ossia, se io ora ho iniziato a fare videos, ci sarà gente che lo vedrà. Ho 50.000 follower, e dunque questi ora conoscono qualcuno che fa cose in catalano in internet, e questo si retroalimenta. E allora di questi follower, forse 10 iniziano a fare videos e iniziano a crescere. Credo che sia piuttosto questo.»

Lildami (cantante): «All’inizio, visto che [nel rap e trap] avevo solo esempi in castigliano cantavo in castigliano. Però c’è stato un punto in cui ha fatto „clac“ ed è stato: se io a casa mia mi esprimo in catalano, con i miei amici parlo in catalano, perché quando faccio musica dovrei farla in modo diverso? Ovviamente i testi sono importanti, ma alla fine ciò che ti fa ballare è se la musica è buona o cattiva.»

„Off“: Lildami è uno dei nomi emergenti del rap e del trap in catalano. Questo ragazzo di 24 anni di Terrassa ha iniziato a 15 anni in uno stile che si sentiva solo in castigliano e in inglese. Adesso ha appena pubblicato „Flors mentre visqui“, il suo primo disco, ed ha venduto tutti i biglietti in alcuni dei festival di musica più importanti che quest’estate avranno luogo in Catalogna.

Lildami: «Posso andare a Tarragona e fare un concerto e so che verrà gente; posso fare un concerto a Girona e anche lì so che verrà gente; o a Lleida. Credo che il bello di cantare in catalano, almeno secondo quanto vedo, è che la gente che mi segue è molto più concentrata. Parlo così perché è come mi esprimo realmente e sicuramente in questa intervista ho detto mille cose [linguisticamente] sbagliate e le dico costantemente, ma senza rendermene conto. Io, ad esempio, sono di Terrassa e nell’area metropolitana c’è molto meticciato fra gente di Spagna e di Catalogna, di quelli che sono venuti e di quelli che sono emigrati da qui. E allora quel che ciò provoca è che nelle case si parli al contempo in catalano e in castigliano.»

David Carabén: «Credo che le lingue sane abbiano i due lati: i puristi e i meticci. E una buona lingua ha queste due correnti e va bene che convivano e che… lottino per difendersi.»

„Off“: Mishima ha iniziato al festival Strenes il tour del suo ventesimo anniversario. Il gruppo che ha appena pubblicato un disco unplugged, „Ara i aquí“, è uno dei punti di riferimento del pop rock catalano nato alla fine degli anni 90. I primi tre album li hanno fatti in inglese, ma il gruppo ha cambiato rotta quando Carabén ha iniziato a scrivere i primi testi.

David Carabén: «Quando cantavo in inglese molto probabilmente stavo ancora giocando, stavo giocando a essere un artista, giocando a essere un compositore, utilizzavo formule della lingua inglese che avevo sentito in altre canzoni. Non ho mai sospettato, né avuto paura e nemmeno la vergogna di pensare che l’io che cantava fossi io — quell’io invece era una specie di cosa favoleggiata, un altro personaggo, un personaggio che io interpretavo.
Quando ho iniziato a scrivere in catalano, a comporre in catalano, ho visto che quell’io che cantava ero [proprio] io. La mia generazione è stata la prima dove in platea, diciamo, e nei posti a sedere non c’erano più bandiere. In una certa maniera avevamo la fantasia di cantare in una lingua che non era connotata né ideologicamente, né politicamente, né nazionalmente; semplicemente era la lingua di questa società e pertanto era la lingua che sceglievamo per cantarci a noi stessi.»

Albert Sánchez Piñol: «Non è che alcune lingue rendano alcune storie universali, ma piuttosto ci sono alcune storie che rendono le lingue universali. E io… scrivendo in catalano mi hanno tradotto in più di 30 paesi, il che dimostra che il problema non è la lingua, no?»

„Off“: Ogni anno circa 150 autori catalani vengono tradotti in lingue straniere. La loro proiezione esterna viene potenziata a partire dalla Catalogna, ma anche dall’Istituto Cervantes, l’organismo incaricato di vegliare sul castigliano e sul resto delle culture che convivono nello stato spagnolo.

Albert Sánchez Piñol: «Ho viaggiato su incarico dell’Istituto Cervantes, e tutto ciò… per loro non esiste il catalano. Cioè ti dicono: „No, no, noi lo rispettiamo molto“, e quando ti portano nelle sedi dell’Istituto, dove potreste andare con la telecamera, lo vedreste, tutto è in castigliano, meno uno scaffale ridicolo dove c’è scritto „lingue coofficiali“. Ossia, questa è la mentalità dello stato.»

Víctor Amela Bonilla: «La Catalogna è una bolla perfetta, che il resto della Spagna non conosce, o non vuole conoscere. E allora io, come autore che scrive in castigliano in Catalogna, ho un problema doppio: uno, che molti dei miei lettori, catalani, non sono molto interessati a leggere in castigliano, e un altro, che il resto dei lettori in castigliano non mi conosce assolutamente e non vuole sapere niente di me, perché sono catalano.»

„Off“: Però in Catalogna si continua a leggere molto di più in castigliano. Se lasciamo da parte i libri obbligatori a scuola, solo uno su quattro libri venduti è scritto in catalano.

Albert Sánchez Piñol: «Che pericolo, che minaccia può significare per il castigliano, che viene parlato in 40 paesi del mondo e da 400 milioni di persone o più, il catalano? Non si dovrebbe fare uno sforzo per proteggere il debole? No e no, la mentalità è quella di andare a colpirlo fino a un punto ridicolo.»

Ester Franquesa (direttrice di politica linguistica della Generalitat): «Se mi chiede di avversità dello stato spagnolo nei confronti della lingua [catalana], io la prima cosa che citerei sono le impugnazioni di tutte le leggi che facciamo in materia linguistica. Ci hanno attaccato [su] tutto: la Legge del cinema, la Legge d’accoglienza, la Legge d’educazione, tutto ciò che riguarda e che regola la materia linguistica, la Legge dell’occitano, il codice di consumo, tutto.»

„Off“: Lo stato e la legislazione linguistica intervengono molto poco sulle applicazioni tecnologiche, regolate dalle leggi del mercato. E il forte attivismo, in questo ambito, ha fatto sì che le grandi piattaforme, nonostante le reticenze iniziali, dispongano dell’opzione linguistica catalana.

Àlex Hinojo: «Quel che dobbiamo fare è andare ogni giorno sui siti, dove sia necessario. E quel che è necessario sarà la traduzione automatica, saranno pagine web, sarà utilizzarle, sarà utilizzarle in rete, non utilizzarle quando non ti lascino… cioè non usare le piattaforme che non ti lasciano [usare il catalano]. E per me è questo, giorno dopo giorno, che bisogna fare. Perché l’alternativa è sparire. Iniziamo a parlare con la lavatrice, col frigo, con la macchina per scaldare il pane. Gli dici [in castigliano]: „Ciao, fammi dei toast“. E perché lo dobbiamo fare in castigliano? Al mio scaldapane voglio parlare in catalano, e che i miei figli capiscano che anche alle macchine possiamo parlare in catalano. Questa è una delle sfide.»

„Off“: La comunità catalanofona in rete è un punto di riferimento a livello mondiale. Il caso più evidente è la Wikipedia catalana, la seconda apparsa dopo quella inglese. Ma in generale in internet la coscienza di mantenere viva la lingua [catalana] è molto presente.

Àlex Hinojo: «Ci sono molte pagine web dove c’è una comunità, dove c’è un catalano che dice „Ah, questo si può tradurre? Dunque lo tradurrò [al catalano]“. Questa coscienza di mantenere viva la lingua esiste. E questo è un vantaggio, una ricchezza che abbiamo.»

„Off“: Valentina e Júlia Planas sono le due sorelle che stanno dietro a „La Incorrecta“, un progetto di correzione e traduzione di testi.

Valentina Planas (La Incorrecta): «Ciò che è ben scritto ha importanza, perché è la nostra carta da visita per il mondo. Scrivere male e parlare male e comunicare male ci fa perdere credibilità.»

„Off“: Per farsi conoscere hanno creato un proprio marchio fatto di frasi provocative che hanno iniziato a diffondere sui social con talmente tanto successo… che hanno cominciato a realizzare oggetti di merchandising.

Valentina Planas: «Il nostro messaggio o le nostre frasi non le possiamo comprendere come letterali. Credo che la cosa importante sia sempre questa complicità che cerchiamo, e col senso dell’umorismo possiamo dire molte cose.»

Pol Gisé: «A me, quando mi dicono: „Devi parlare bene il catalano, non usare questo linguaggio perché questo è un ‚barbarismo‘.“ „Pensa che ti segue molta gente.“ e… non credo che debba essere così. Forse uso questi ‚barbarismi‘ espressamente, forse no, ma c’è gente che parla così.»

Juliana Canet: «Credo che sia importante parlare il catalano meglio possibile, ma è anche normale che utilizziamo „codicilli“, e questo già non l’ho detto bene, per agganciare il pubblico e perché è il nostro modo di parlare. E se usi un modo di parlare che non è il tuo non sei naturale e non agganci [le persone] allo stesso modo.»

„Off:“ La sfida della naturalezza c’era già negli anni 80 con le prime serie [televisive] in catalano. TV3, appena nata, partiva dal nulla. E le soluzioni, che fino ad oggi hanno continuato a evolversi, dovevano essere uno specchio, ma [al contempo] anche un modello per il pubblico.

Pau Vidal: «L’evoluzione è incredibile, mi sembra che si sia fatto in una maniera abbastanza… abbastanza adeguata. Ora è vero anche che, chiaro, il flusso di interferenze è talmente brutale, tanto sproporzionato, che per forza deve risultarne un linguaggio castiglianizzato.»

Neus Nogué: «Ci lamentiamo perché ci sono persone che parlano in una maniera… con risorse linguistiche ridotte, ma d’altro canto siamo contenti se qualcuno entra a far parte della comunità catalanofona. Allora qui c’è una specie di conflitto d’interesse. Da un lato vogliamo essere molti e [dall’altro lato vogliamo essere] ricchi, no?»

„Off“: Studenti di filologia parlano della crescente dissoluzione del catalano nella lingua dominante in Catalogna, il castigliano. È una delle principali minacce, ma non l’unica, per una lingua che parla abitualmente solo un terzo della popolazione. Che si continua a trasmettere da genitori a figli, ma che ha un ritardo in uno spazio strategico fondamentale: lo svago dei giovani. E la cui sopravvivenza, soprattutto, la decideranno i parlanti.

Víctor Amela Bonilla: «Io credo che in Catalogna si sia fatto quel che si poteva fare, è stato fatto bene, e dobbiamo avere fiducia nella ricchezza della società, che alla fine parlerà quel che vorrà parlare.»

Pau Vidal: «Non dargli troppa importanza è il modo che ha trovato per soffrire meno. Non dico che non sia una maniera intelligente, perché probabilmente gli è utile a soffrire meno. Ora, evidentemente non è utile per cambiare il risultato. Cioè, un’attitudine come questa favorisce la fine.»

Albert Sánchez Piñol: «Perché dobbiamo mantenere il catalano? Io ripeto quel che dico sempre, c’è solo un grande motivo: perché sì. Perché siamo catalani, e ci piace, e perché c’è una questione di pura cultura, che parlare bene una lingua ti sta parlando di una mente illustre e ben ordinata.»

Carme Junyent: «Se fossimo coscienti che parlare la lingua contro tutte le pressioni che ci sono, dal mondo audiovisuale, politiche, di ogni tipo, economiche… se fossimo coscienti che conservando la lingua ci opponiamo a tutto ciò, cioè, ci manteniamo liberi da tutte queste pressioni, sicuramente il nostro comportamento sarebbe molto differente.»

Alacant (País Valencià), Spagna

Miquel Flores (filologo e attivista linguistico ad Alacant): «Alla fine sono i parlanti che abbandonano la lingua e che finiscono per causare questa morte. Il Raval Roig è credo… un quartiere mitico, no? Perché è l’ultimo quartiere dove si parlava valenciano [variante del catalano, ndt] e dove veniva trasmessa la lingua. Chi sono gli ultimi a cambiare lingua? Coloro che hanno meno risorse, coloro che meno necessità hanno di cambiare lingua.»

Matilde Lozano (abitante di Alacant): «Dopo sono arrivati i milionari, e no… non parlavano molto in valenciano, né altro, parlavano in castigliano. Io non so perché non parlano in valenciano, ad Alacant, perché no… è che non si parla, non lo parla nessuno. Lo parliamo solo in quattro o cinque che siamo di qui, però quelli che vengono da fuori parlano tutti in castigliano, in castigliano, in castigliano. E alla fine una si deve stancare e deve parlare in castigliano in compagnia loro.»

Litri Riera (abitante di Alacant): Qui, oggi, di valenciano rimane poco. Andiamo, diciamo che siamo rimasti in quattro, solo quattro. I ragazzini ti parlano in castigliano. Tutti!

Miquel Flores: Perdere una lingua che cos’è? Perdere un modo di vedere il mondo. È un classico dirlo, ma è la verità, no? Si perde una percezione diversa di vedere il mondo. La tua. Non è la stessa cosa dire a una persona „te vull“, trovo, che „te quiero“ [ti amo].

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