La doppia cittadinanza per i sudtirolesi ovvero l’opzione di una parte della popolazione della provincia di Bolzano di acquisire la cittadinanza austriaca senza essere residenti in Austria ora fa parte del programma del nuovo governo a Vienna. Tuttavia non c’è grande entusiasmo negli ambiti governativi né a Bolzano né a Roma e neanche da parte della nuova ministra Karin Kneissl. Sarebbero pensabili anche delle alternative.
L’autopercezione dei sudtirolesi più frammentata
La cittadinanza di uno Stato conferisce diritti e doveri. Ai sudtirolesi un’altra cittadinanza, cioè quella austriaca, procurerebbe non tanti doveri, ma soprattutto diritti politici e anche qualche diritto sociale. Difficilmente i sudtirolesi vorranno “pagare” il diritto al voto in Austria con 6 mesi di servizio militare oppure con un doppio versamento di imposte. Con il diritto al voto per il Parlamento austriaco in tasca i sudtirolesi di lingua tedesca e ladina si interesserebbero ancora di meno della politica italiana che ci riguarda direttamente, e di più quella austriaca che ci riguarda molto poco. Secondo l’Astat solo un decimo del gruppo tedesco e ladino seguono la politica in Italia. Perciò sul piano del consumo di media e dell’interesse per la vita politica la cittadinanza sdoppiata sicuramente accentuerà la sensazione di appartenere a due mondi diversi.
Esiste già l’equiparazione dei sudtirolesi in Austria
Senza dubbi la doppia cittadinanza potrebbe rafforzare il legame dei sudtirolesi con la madrepatria austriaca, dall’altra parte anche la responsabilità dello Stato austriaco per i suoi cittadini all’estero. Però già oggi in base alla “Gleichstellungsgesetz” austriaca i sudtirolesi godono di pari diritti in vari settori. Gli studenti universitari, per esempio, in Austria non pagano le tasse universitarie previste richieste dagli stranieri. D’altra parte la nostra autonomia è garantita a livello internazionale e la funzione tutrice di Vienna non viene messa in questione da parte dell’Italia. La vera funzione tutrice oggi scaturisce dall’autonomia, che garantisce sia la protezione delle minoranze sia l’autogoverno territoriale. Un’autonomia è come un invito ai gruppi autoctoni di autogovernarsi in concordanza senza dover costruirsi una seconda gamba nazionale all’estero. Gli ungheresi della Transilvania (Romania) per esempio starebbero meglio se avessero un’autonomia e non tanto la cittadinanza ungherese (di cui effettivamente tanti dispongono). Infine, la stessa Austria non intende incorrere a nuovi obblighi finanziari verso cittadini residenti all’estero, che sono né emigrati né poveri. Dall’altra parte ci sono anche centinaia di migliaia di italiani, nati e cresciuti all’estero, che votano per il Parlamento a Roma, senza aver mai messo piede in Italia.
Più importante la cittadinanza comunitaria
In provincia di Bolzano la cittadinanza sdoppiata contribuirebbe alla differenziazione della posizione giuridica della popolazione residente. I membri delle due minoranze nazionali, i cittadini “ordinari” senza riguardo alla lingua, i cittadini di altri paesi UE, gli stranieri con permesso di soggiorno illimitato, infine quelli senza permesso di soggiorno. Per i cittadini già fortemente tutelati verrebbe dispiegato un nuovo scudo di protezione, mentre per l’integrazione dei nuovi cittadini e di italiani provenienti da altre regioni non ci sarebbe alcun incentivo. Un tale scudo protettivo nel nostro caso è meno urgente dal momento che esiste sia l’accordo di Parigi sia varie convenzioni quadro europee per le minoranze ratificate sia dall’Austria sia dall’Italia. Infine, all’interno dell’UE si sconsigliano le doppie cittadinanze per interi gruppi di persone anche per stimolare gli immigrati a scegliere un paese e la sua cittadinanza e perché i cittadini comunitari sul piano sociale e civile hanno comunque pari diritti. La doppia cittadinanza per minoranze nazionali rende meno urgente la richiesta di autonomia. È un messaggio sbagliato agli Stati nazionali.
Un legame più forte per chi non è ancora radicato
Non c’è bisogno di una tutela aggiuntiva tramite la cittadinanza di un altro Stato, ma di legami più forti e comuni fra tutti i gruppi nei confronti della propria regione di residenza. Non si può dire che tutti gli italofoni sudtirolesi siano ben radicati in questa terra, e ancora di meno i nuovi immigrati degli ultimi 25 anni. Per il gruppo linguistico italiano la cittadinanza austriaca non sarà né interessante né raggiungibile. Per i nuovi immigrati l’integrazione sociale e culturale in una regione con due lingue è faticosa. L’Italia complica l’acquisizione della cittadinanza e in Sudtirolo i figli degli immigrati devono imparare due lingue. È risaputo che per tante famiglie immigrate, spesso parte dei ceti più poveri, torna difficile muoversi in un ambiente straniero. Nei paesi germanofoni, tutti paesi con almeno 50 anni di immigrazione, tanti immigrati della terza generazione ancora oggi si ritrovano fra i gruppi più svantaggiati nel sistema educativo e del mercato del lavoro.
Esempio isole Aland
Perciò occorre pensare a forme di cittadinanza che promuovano l’integrazione di chi oggi già vive in questa regione autonoma. Sulle isole Aland, regione autonoma della Finlandia, già esiste una tale “cittadinanza regionale”, definita “Hembygdsrätt”, ovvero diritto alla Heimat. Viene riconosciuto a quei cittadini finlandesi che padroneggiano lo svedese, vantano un periodo di residenza minimo sulle isole. Questo diritto alla Heimat sulle Aland assicura il diritto ad esercitare qualunque mestiere, ad acquistare immobili e il diritto passivo e attivo di voto alle comunali e regionali. In Svizzera si distingue fra la cittadinanza statale e quella cantonale e comunale che può essere conferita anche a stranieri residenti. Ci sono decine di migliaia di cittadini italiani in Svizzera, non ancora nazionalizzati, ma riconosciuti anche quali cittadini cantonali per cui titolari del diritto al voto attivo e passivo.
Questo tipo di cittadinanza regionale non può certamente essere trasferita sic et simpliciter all’Alto Adige, benché fosse perfettamente compatibile con il diritto comunitario. Ma ciò che conta è l’approccio di fondo: si tratta di rafforzare il legame delle persone con la loro regione, si tratta di stabilizzare i movimenti migratori e di creare condizioni migliori per l’integrazione. Inoltre si tratta di promuovere il senso di responsabilità comune per la regione di residenza. Perciò una cittadinanza regionale dev’essere aperta a tutti coloro che intendono radicarsi, perfino a persone residenti non ancora cittadini italiani. Questo tipo di cittadinanza regionale sarebbe legata ad un periodo minimo di residenza e alla conoscenza delle lingue locali. Come contropartita dovranno esserci anche alcuni diritti forti: l’accesso a tutte le prestazioni sociali degli enti locali, l’accesso al nucleo del pubblico impiego finora riservato ai cittadini, il diritto al voto nelle elezioni comunali e provinciali. Tutto questo aiuterebbe gli immigrati ad identificarsi con la loro nuova “Heimat”, a costruirsi una prospettiva di lunga permanenza per se e per i figli. Non sarebbe decisiva la cittadinanza italiana che comunque potrà seguire dopo 10 anni di residenza. In breve: invece di aprire un altro scudo protettivo per quelle persone oggi già protette da varie norme, con una cittadinanza regionale (sudtirolese) si raggiungerebbe un doppio obiettivo: un legame comune fra i gruppi che vivono in questa terra e uno stimolo aggiuntivo per gli ultimi arrivati di integrarsi bene nella società locale.
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