Poche settimane fa mi ero già espresso sulla questione, ma ora mi vedo «costretto» a ritornarci per ragioni d’attualità. Infatti, il Club Alpino Italiano (CAI), con modalità preoccupanti e chirurgica precisione, negli ultimi giorni ha lanciato una campagna sulla toponomastica, concertata con la politica, per reitalianizzare le montagne. Parlo di «precisione» in quanto si riaccendono i riflettori sulla questione giusto nel periodo in cui la nostra terra è visitata da un numero elevatissimo di turisti italiani, consegnando loro un’immagine distorta della realtà locale. L’ipocrisia più insopportabile, però, è quella di tirarli in ballo direttamente come apparenti artefici di qualche improbabile traduzione «a pennarello» sui cartelli segnavia e come autori di «numerosissime» lamentele e reclamazioni. L’assessore Berger, giustamente disgustato dalla violenza di questa campagna, si è informato presso le associazioni turistiche, alle quali però di proteste non ne sono arrivate. E c’è da credergli, perché se davvero ci andassero di mezzo i soldi, le Pro Loco e gli albergatori sarebbero i primi a chiedere la traduzione fino all’ultimo maso. Certamente ora la problematica, sollevata ad arte, farà sì che qualche turista più «nazionalista» colga l’occasione per entrare nel coro. Ma in sostanza chi ama la montagna non può che ripudiare l’artificiale e snaturante colonizzazione politica di Tolomei — fatto che potrei confermare, in maniera ovviamente non rappresentativa, per esperienza diretta con numerosi turisti italiani.
Se la destra italiana è perfettamente nel suo elemento, la sinistra e gli interetnici non si sottraggono certo alla politica «etnica», nella quale va sempre bene sostenere l’importanza di Tolomei per la convivenza, mentre sui veri soprusi e diritti linguistici negati non si apre bocca. Oppure forse Sinistra Democratica (che sta portando la questione dei cartelli davanti ai giudici) ha mai puntato il dito contro il monolinguismo di poste, ferrovie o polizia?
L’azione del CAI è espressione di chi è rimasto intrappolato in una mentalità colonizzatrice, volendo perpetuare con prepotenza l’effetto snazionalizzante di un «prontuario» che, ormai, per moltissimi toponimi di montagna sembrava dimenticato. Fa amaramente ridere che Broggi, presidente del CAI in Sudtirolo, affermi che i nuovi cartelli alimentano le tensioni etniche, quando sono proprio le modalità della sua iniziativa a riaccendere artificialmente il contrasto etnico.
Vada, il signor Broggi, nei Pirenei baschi, a vedere se turisti spagnoli e francesi si lamentano di nomi davvero impronunciabili. Si renderà conto che non c’è bisogno di distorcere la realtà, di rendere tutto perfettamente intellegibile (ma inesorabilmente falso), per garantire la sicurezza. Non si è mai sentito di un incidente in montagna (né qui, né altrove) dovuto al monolinguismo dei nomi. Vada anche a fare un po’ di trekking in Catalogna, il presidente del CAI, dove i nomi fascisti non solo sono aboliti ma perfino vietati. E — forse — è già stato in Svizzera, dove i turisti sono costretti a sopportare toponimi monolingui in italiano, francese, tedesco e perfino in romancio. Oppure, per non rimandare solamente all’estero, vada in Val D’Aosta, in Sardegna, in Friuli, a vedere se le montagne sono tutte «tradotte».
In ogni caso, criticato aspramente il CAI in quanto braccio allungato di una certa politica, non si possono non tirare in ballo le responsabilità di chi da decenni ha evitato il dialogo sulla regolamentazione della toponomastica, prevista sin dai trattati di Parigi, lasciando che i nodi venissero inesorabilmente al pettine. Certamente lo statuto di autonomia è perfettamente ambiguo quando fa riferimento alla «toponomastica bilingue». Ma allora bisognava rimboccarsi le maniche per modificarlo — oppure, più semplicemente, portare avanti una legge ed attendere l’esito di un’eventuale impugnazione per poter (re)agire di conseguenza.
Lo stesso Alpenverein (AVS) non può comunque pensare di sostituirsi alla politica. Improponibile, in Sudtirolo, abolire i toponimi italiani delle maggiori località. Perfino irresponsabile non tener conto della traduzione di concetti quali «ponte», «giogo» o «rifugio». Ma il CAI ha già fatto sapere che non ritiene sufficiente un passo indietro su questi punti, già annunciato dal presidente dell’AVS.
Queste sono esasperazioni di un conflitto etnico solamente assopito dai soldi, destinato a riaccendersi ogni qualvolta i separati in casa (ma a cosa servono due club alpini di stampo etnico?) si incontrano. E sui sentieri pubblici è inevitabile. Sarebbe ora di dare una soluzione politica al problema della toponomastica (e non solo a quello!), invece di delegarlo alle associazioni.
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