Qualche giorno fa in un fondo sull’A. Adige, intitolato «Convenzione, fallimento prevedibile» Paolo Campostrini, zelante fustigatore dell’esperimento partecipativo fin da prima che partisse, ha tirato le somme sulla prima fase del processo di riforma dello Statuto, conclusasi sabato scorso con l’ultimo dei nove open spaces: di questa prima fase, dice, «non sta importando (quasi) nulla a (quasi) nessuno» e la politica andrà avanti per la sua strada, senza tenerne conto.
L’autore giunge a questo sferzante giudizio analizzando chi ha partecipato agli open spaces da un lato e accusando chi ha organizzato il processo partecipativo dall’altro.
Con malcelato disprezzo afferma che
è arrivato chi voleva, senza un criterio […] e con un’idea fissa in testa: toponomastica, autodeterminazione, divise sudtirolesi, indipendenza.
E, al contrario di ciò che si è detto agli open spaces, una delle cui regole fondamentali è che «chiunque venga, è la persona giusta», per Campostrini, evidentemente, quelli che c’erano non erano quelli giusti: né politici, né intellettuali. Alcuni di questi ultimi
c’erano il primo giorno, ma hanno subito fiutato l’aria che tirava
e quindi, giustamente, hanno preferito andare altrove. Non meraviglia quindi che per l’autore chi c’era non ha portato le idee giuste e che, anzi, si sono «riversati a valle i temi meno sofisticati.»
Ma non si tratta solamente d’idee sbagliate, sembra che il fatto stesso di voler coinvolgere la popolazione in un processo partecipato sia se non dannoso quantomeno inutile, vista l’incapacità delle cittadine e dei cittadini di decidere autonomamente di parteciparvi:
Ma il popolo non ha una sua struttura organizzativa. Non è un’azienda. Aspetta, di solito, che qualcuno li dia una mano a organizzarsi. Altrimenti si va a spanne.
A quanto pare l’aiuto dato dal consiglio provinciale, che sta organizzando la Convenzione, non basta. E limitatamente a quest’ultimo punto, se vogliamo dirla tutta, Campostrini non ha del tutto torto. Poteva essere fatto molto di più. Non tanto per il metodo degli open spaces che permette, e chi c’era lo sa bene, a tutte le persone di esprimersi liberamente su quello che ritengono importante, ma piuttosto per il lavoro d’informazione e coinvolgimento a questa fase della Convenzione di fasce di popolazione meno propense — per vari motivi — alla partecipazione politica. La magrissima campagna pubblicitaria, peraltro (se non erro) solo a ridosso del primo open space, non può certo essere considerata sufficiente. E forse anche questo ha contribuito al fatto che le concittadine e i concittadini di lingua italiana, ma anche le donne e ancor più i migranti fossero decisamente sottorappresentati.
Campostrini in ogni caso non si limita a biasimare gli open spaces, ma critica pesantemente anche il forum dei 100. Sebbene organo «più qualificato», avrebbe un vizio di fondo: visto che si nutre delle persone che hanno partecipato agli open spaces, afferma, «l’algoritmo non potrà inventarsi il genio della lampada». Bene, a parte il fatto che in questo modo continua a denigrare chi a questo processo finora ha dedicato tempo e passione, dice anche cose non vere. Ieri, infatti, sono state estratte 100 persone che rappresentano la popolazione sudtirolese per genere, lingua e classi d’età tra tutti quelli che hanno dato la loro disponibilità . E non tra chi ha partecipato agli open spaces.
Saranno queste 51 donne e questi 49 uomini sudtirolesi che per un anno almeno arricchiranno i lavori della Convenzione con le loro riflessioni, le loro discussioni e le loro proposte in un esercizio di democrazia partecipativa finora mai visto dalle nostre parti. E questo sarà forse poco, ma tutt’altro che un fallimento.
Cëla enghe: 01
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