In un’intervista concessa al quotidiano A. Adige, dov’è apparsa oggi, il consigliere Alessandro Urzì (AAnC) espone i propri timori nei confronti del processo partecipativo per la riforma dello statuto di autonomia. Secondo l’esponente neofascista la Convenzione Sudtirolese nasconderebbe il rischio di venir monopolizzata dai «secessionisti», che si starebbero già organizzando in tal senso.
Probabilmente Urzì non ha ben chiaro a cosa serva la Convenzione: non a contar voti e quindi a prendere decisioni, ma ad ascoltare la popolazione, principio sacrosanto in democrazia. In contrasto coi principi fondamentali di una tale iniziativa, il Landeshauptmann, anche lui in evidente difficoltà d’ascolto, ha già provveduto a comunicare che le idee della cittadinanza saranno poi «scremate» e suddivise in proposte buone e proposte cattive. Poi, l’ultima parola spetterà comunque al parlamento romano. Nulla da temere.
Trattandosi di un esercizio d’ascolto, si può dedurre che Urzì non abbia alcuna voglia di sentire quel che una parte consistente della popolazione — che gli piaccia o no — avrà da dire: l’indipendentismo è un sentimento diffuso, se non maggioritario, e non avrebbe alcun senso continuare a mettergli il silenziatore. Piuttosto: in democrazia la volontà del popolo sovrano andrebbe non solo ascoltata, ma anche applicata.
L’Italia (non gli italiani, che sono un’altra cosa e in Tirolo ci sono sempre stati) cent’anni fa è venuta in questa terra con la guerra e con il sotterfugio. Ma, come nel medioevo, in un secolo la popolazione non ha mai potuto dire la sua, semplicemente non è mai stata ascoltata circa la propria appartenenza statuale.
Se Urzì ha paura che gli indipendentisti si organizzino e monopolizzino la Convenzione, in democrazia c’è una sola soluzione: si attivi per permettere un referendum, in cui senza eccezioni e rischi di manipolazione a una persona equivale un voto. Fare lo struzzo e infilare la testa nella sabbia, no, non è un’opzione degna di una democrazia del ventunesimo secolo.
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