[L]’indagine conferma che la società italiana, in tutte le sue espressioni, vive una generale ‘questione delle lingue straniere’, una paura dominante nei confronti della diversità linguistica (Vedovelli, 2010). Di conseguenza, è scarsa la competenza nelle lingue straniere, da quelle di grande diffusione internazionale, a quelle meno diffuse, ma ugualmente importanti per la presenza di suoi parlanti nel territorio, per il loro legame con l’Italia e per fare affari nei mercati emergenti.
La causa va ricercata innanzitutto nel monolinguismo che è stato una delle caratteristiche distintive della politica linguistica e educativa dopo l’unificazione italiana e che è stato sostenuto da un rifiuto generale per le lingue degli altri. Secondariamente, è il risultato dell’inefficacia dell’azione istituzionale messa in atto dal nostro Stato, e caratterizzata dalla inadeguatezza delle risorse, dell’organizzazione, di formazione per i docenti, così come dalla mancanza di collegamenti sistemici con il mondo delle imprese. A scuola l’attenzione è solo centrata sull’inglese, che – peraltro – è insegnato in un contesto di limitatezza di risorse che rende spesso inefficace ogni sia pur volenteroso sforzo dei singoli docenti o delle singole scuole. Ancora oggi i giovani che terminano il nostro sistema scolastico sono caratterizzati nella assoluta maggioranza dei casi dalla ‘conoscenza scolastica’ di una lingua straniera e tale espressione è un eufemismo, un modo velato per alludere direttamente alla mancanza di competenza.
Le lingue immigrate presenti oggi in Italia costituiscono un fattore di neo-plurilinguismo che potrebbe potenzialmente contribuire a ridurre la paura di diversità linguistica nel nostro Paese, ma questa opportunità non è tuttora considerata.
È bene ricordare che il Sudtirolo si trova ad appartenere ad uno stato nazionale e a uno dei paesi europei che meno valorizzano e rispettano la diversità linguistica, per non parlare del dominio attivo delle lingue. Ciò va detto anche per coloro che (salvo poi sottomettersi alla sua vetusta logica di «una nazione una lingua») pensano che sia proprio questo stato a garantire il nostro plurilinguismo. È invece proprio il contesto riassunto da Language Rich Europe a rendere difficilissimo, se non impossibile, il riconoscimento vero e duraturo del carattere plurilingue della nostra terra, con tutto ciò che ne dovrebbe, in teoria, conseguire per le pubbliche amministrazioni, le aziende ed i singoli cittadini. Lo status di minoranza in una situazione del genere è, come tutti sappiamo, caratterizzato da una continua ed estenuante battaglia contro i mulini a vento per il riconoscimento dei diritti linguistici fondamentali.
Il riassunto qui riproposto va tenuto presente anche quando sono proprio i rappresentanti dello stato nazionale a consigliarci — come spesso avviene — maggiore «apertura mentale», «europeismo» e plurilinguismo, quando molto spesso di null’altro si tratta che di tentativi di assimilazione malcelati dietro a un’apparenza «moderna». Lo dimostrano i fatti: Laddove (in altre regioni) è l’italiano a predominare, difficilmente si troveranno le tanto decantate scuole plurilingui — eppure lì sarebbero facilmente sperimentabili senza alcun rischio.
È dunque ridicolo affermare che l’indipendenza da questo stato nazionale che rifiuta le lingue degli altri ridurrebbe il plurilinguismo in Sudtirolo. Le ricette per mantenerlo e aumentarlo sensibilmente, invece, dobbiamo senz’altro trovarle e applicarle noi.
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