di Gabriele Di Luca
Strumenti di rilevazione periodica, applicati al dolente capitolo del cosiddetto “patentino”, confermano la cupa visione dei pessimisti. Soltanto il 38,1% dei promossi per la carriera C e il 27,3% per la B, vale a dire gli esami ai quali partecipano in genere gli altoatesini e i sudtirolesi in età scolare, in teoria facilitati dalla più intensa esposizione all’insegnamento della seconda lingua.
Logico dunque che si tenda a puntare subito il dito contro la scuola. Bisogna cambiare radicalmente il sistema educativo – si asserisce – per aprire una strada a un’educazione libera e plurilingue. Occorre forzare quelle che continuano ad essere descritte come rigide caste etniche per realizzare il sogno di un Sudtirolo “ladinizzato”. Il riferimento qui è all’alta percentuale di promossi all’esame di trilinguismo delle valli ladine: esempio di una didattica di successo da replicare ovunque in modo pedissequo.
Le cose però non sono così semplici. I fautori del radicale cambiamento di sistema sono diventati col tempo una pattuglia abbastanza prevedibile, sebbene raramente lucida riguardo alle proposte alternative (chi parla di “scuola bilingue” in genere non fa che agitare uno slogan e stenterebbe parecchio ad attribuirgli un significato univoco). Segno che non ci sono motivi di rammarico, che è bene lasciare le cose come stanno? Nient’affatto.
Proprio in questi giorni sono stati resi disponibili i risultati di una ricerca durata sei anni. Mediante un accurato allestimento di test ad hoc completati da analisi psicolinguistiche, lo studio ritrae il rapporto degli studenti locali con la seconda lingua (Kolipsi, Eurac 2012). Presentando il volume, Andrea Abel e Chiara Vettori, due delle curatrici, hanno messo in luce che, al di là di ogni possibile manchevolezza imputabile al sistema scolastico, il vero e proprio nodo da sciogliere concerne la prevalenza di una concezione utilitaristica del linguaggio, finalizzato cioè alla possibilità di ottenere un certificato o un posto di lavoro. In questo modo lo scambio interlinguistico continuerà ad essere vissuto con frustrazione.
Sarebbe perciò ancora il nostro atteggiamento di fondo – sintetizzato dalla pigrizia e dalla refrattarietà nel provare un sincero interesse per persone dell’altro gruppo – a inibire in modo pervicace l’uso e talvolta persino la percezione di codici che non siano quelli usati abitualmente. La scuola potrebbe certamente contribuire a migliorare le cose. Ma la scuola non basta. Occorre, occorrerà sempre un ambiente circostante orientato alla positività dell’incontro, della relazione, e informato dalla cultura del contatto.
Corriere dell’A. Adige, 16 marzo 2013
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