Sul portale AA Innovazione (AAI), ancora una volta, è stata scoperta l’acqua calda: a Berlino, come probabilmente in tutte le metropoli del mondo, esistono delle scuole plurilingui — e funzionano. Qualche tempo fa Fabio Gobbato su Salto aveva rivelato che ce n’è una anche a Monaco (cfr.).
Il titolo sarcastico dell’articolo su AAI («Miracolo a Berlino: la scuola bilingue funziona. L’esempio della Staatliche Europa Schule») fa intuire di che cosa si tratta: far capire ai sempre arretratissimi sudtirolesi che nel mondo aperto, grande e libero non ci si fanno troppi problemi e le scuole plurilingui non sono l’apocalisse.
Very Difficult
Tuttavia — attenzione, perché sembra un fatto davvero difficilissimo da capire — ben pochi mettono in dubbio che le scuole plurilingui funzionino in un contesto (mono-)nazionale, come appunto quello, pur multiculturale, di Berlino. Il problema è che, diversamente da quel che viene suggerito anche nell’approfondimento-intervista di Caterina Longo su AAI, non è affatto così che se il modello funziona in Germania, a maggior ragione funzionerà in Sudtirolo. Al contrario! Le scienze linguistiche, quando si sono occupate specificamente del tema, a partire da quelle canadesi (quindi del paese di provenienza dell’immersione), concordano sul fatto che l’immersione bidirezionale (simmetrica o assimmetrica), è semmai rischiosa proprio per le comunità di minoranza (o minorizzate).
Cioè: che una scuola plurlingue funzioni a Berlino, Parigi o Roma piuttosto che a Trento o Innsbruck ha ben poca rilevanza per il Sudtirolo, il Galles, i Paesi Baschi o il Québec, realtà molto più complesse e fragili. Sembra una cosa chiarissima, ma evidentemente — e l’articolo di AAI ne è l’ennesima dimostrazione — non lo è.
Facciamo pure l’esempio della sezione italo-tedesca della Staatliche Europa-Schule Berlin: gli alunni di madrelingua tedesca non rischiano certo di «perdere» la loro madrelingua, facendosi assimilare, perché non solo parlano il tedesco a casa, ma questa è anche la lingua dominante in tutto e per tutto nella città e nel paese in cui si trovano, di cui è l’unica lingua ufficiale. Per le alunne di madrelingua italiana, al contrario, l’Europa-Schule è ad ogni modo molto meglio di una normale scuola pubblica tedesca, dove l’italiano non lo imparerebbero se non come lingua straniera. Win-win.
Non è poi certo detto che i ragazzi di madrelingua italiana non «perdano» prima o poi l’italiano, decidendo di non coltivarlo più ovvero assimilandosi. Ma finché rimangono in Germania sarebbe sì un peccato, ma non certamente un grave problema né individuale né sociale. Di fatto, praticamente «non se ne accorgerebbe nessuno», se non forse la comunità italiana di Berlino.
Ovviamente il multiculturalismo ha un suo valore e va quindi coltivato anche in un contesto (mono-)nazionale, ma è proprio questo che tentano di fare le scuole plurlingui in quei contesti. Lo scopo non è certo costruire — o mantenere — una società in tutto e per tutto bilingue.
Molto diversa è, invece, la situazione di una minoranza che si trova in uno stato (mono-)nazionale di lingua diversa dalla sua, dove sono forti — e costantemente presenti — le spinte all’omogenizzazione, le logiche minorizzatrici e (post-)coloniali, gli effetti dell’onnipresente nazionalismo banale. In tale contesto, le scuole plurilingui non solo non sono un argine all’assimilazione, ma rischiano di diventarne un formidabile strumento. E pare ovvio: mescolare, in maniera più o meno paritaria, comunità maggioritarie e minoritarie, che piaccia o no, prima o poi porterà a far prevalere l’una sull’altra, non solo a scuola ma in ogni contesto sociale.
Ripeto: quel che funziona, a livello scolastico — ma senza cambiare di una virgola la supremazia totale della lingua nazionale — in un contesto come quello di Berlino, per una comunità minoritaria plurilingue può avere effetti devastanti. E, come ho detto, su questo la scienza è abbastanza univocamente concorde.
Tra l’altro, leggendo l’intervista di Caterina Longo con il preside Wolfgang Gerhardt scopriamo che:
- gli alunni della Staatliche Europa-Schule Berlin sono sottoposti a test linguistici preliminari per individuare quale sia la lingua dominante;
- vengono poi separati per lingua materna durante le ore di tedesco e di seconda lingua (chiamata «lingua partner»);
- la lingua nazionale è ovviamente del tutto prevalente nella scuola, in quanto tutte le nove combinazioni linguistiche comprendono sempre il tedesco accanto un’altra lingua;
- le due lingue (il tedesco e la lingua partner) sono parlate anche nelle pause (obbligatoriamente?);
- uno dei princípi cardine della scuola è che insegnino solo native speaker anche nelle materie non di lingua, con un certo disprezzo per gli accenti («non vogliamo che qualcuno insegni con un accento»).
Scorrendo poi il sito internet e il flyer ufficiali della scuola, si apprende anche che:
- al momento dell’iscrizione vengono effettuati test linguistici non solo per individuare quale delle due lingue sia quella prevalente, ma come esame d’ammissione: «un test linguistico d’ingresso certifica la padronanza della prima lingua per poter accedere alla [Staatliche Europa-Schule Berlin]»;
- le sezioni linguistiche sono quindi pensate per alunne la cui prima lingua sia o il tedesco o la lingua partner, per cui non esiste la problematica (abbastanza diffusa ormai anche in Sudtirolo, specialmente ma non solo nelle città) della presenza di alunni che all’inizio del percorso scolastico non parlano né l’una né l’altra lingua;
- le classi si compongono al 50% di alunni di ciascuna delle due lingue (tedesco e lingua partner), cosa che in Sudtirolo — a prescindere da tutte le altre problematiche — in molti contesti sarebbe difficilissimo da ottenere;
- l’ammissione viene confermata o ritirata (in caso di problemi linguistici) dopo due anni, alla fine di un periodo di prova, o può venire negata sin dall’inizio se per altre ragioni non ci si attende che la candidata sia idonea.
Insomma, non proprio un buon esempio per la scuola pubblica in Sudtirolo.
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